Zusha, perché non sei stato Zusha?

By on Giu 7, 2021 in Filosofia

La fortuna editoriale di Bauman è stata fulminea quanto tardiva. Ha iniziato a scrivere i suoi libri nel 1990 quando lasciò per raggiunti limiti di età la cattedra all’Università di Leeds. Una capacità di elaborare il pensiero sostenuta da una scrittura altrettanto vertiginosa ha fatto sì che l’aggettivo “liquido” – comune nel linguaggio quotidiano quanto desueto in sociologia- diventasse il sinonimo della sua produzione intellettuale; così, da un giorno all’altro, l’amore, la modernità, il mondo, il consumo, il lavoro e persino la paura, si sono liquefatte e hanno perso per sempre solidità e consistenza.

Delle molte opere quelle che più amo sono strutturate sotto forma di dialogo: “Babel” (con Ezio Mauro), “L’ultima lezione” (con Wlodek Goldkorn) e ora “A tutto campo”, (con P. Haffner). Non è un caso. Nel dialogo, e in alcuni casi nel contraddittorio, il pensiero di Bauman perde le legnosità per quanto piccole ma tuttavia inevitabili che contraddistinguono la forma-saggio: il dialogo è la forma suprema attraverso la quale si esprime il pensiero filosofico. Infine, ultima ma affettivamente di gran lunga la più importante, attraverso il dialogo – se e quando riportato con fedeltà da un interlocutore all’altezza – emerge e si manifesta la persona in tutta la sua autenticità e bellezza.

La voce del maestro risuona nelle parole che Bauman ha pronunciato nel corso dell’intervista. Parole registrate, e poi redatte e infine tradotte, editate e stampate. Sono le parole della consapevolezza, della distinzione, dell’andare a sé. Sostiene Bauman che il suo mestiere consiste nel rendere non familiare ciò che è familiare, e familiare ciò che non è familiare, ovvero il compito della sociologia. E anche questa idea di svelamento fa risuonare nella mia mente il tema della crescita nella relazione presupposto di cambiamento e di trasformazione.

In alcune conversazioni la voce di Bauman s’incrina e lo scoramento, la perdita di speranza conquistano il centro della scena. L’irriducibile combattente per un mondo migliore è convinto di aver fallito, di non aver trovato formule e soluzioni per impedire il disfacimento di un’umanità irrimediabilmente liquida. Tuttavia, nonostante il disincanto quest’uomo giunto al bordo estremo della vita riesce a scuotersi e a dare al lettore-ascoltatore la prospettiva della speranza. La sola che non può e non deve mai essere negata.

Penso che leggere (ascoltare) Bauman sia un modo efficace di andare a sé. E imparare a distinguere l’autentico da ciò che non è. La sua ultima intervista mi ha fatto tornare in mente una storia ebraica: “Reb Meshulam Zusha di Annipol, noto per la sua mite bontà e saggezza, giunto alla fine della sua vita divenne triste e addolorato. Interrogato dai suoi discepoli spiegò che temeva il giudizio del tribunale celeste poiché sapeva che non gli avrebbero chiesto “Zusha perché non sei stato all’altezza del nostro maestro Mosè”? E neppure “Zusha perché non sei stato come nostro padre Abramo?”. Ma gli avrebbero chiesto “Zusha, perché non sei stato Zusha?”.

bauman