La persona che mi ha regalato “Yossl Rekover si rivolge a Dio”, Piccola Biblioteca Adelphi, dice che lo ha scelto perché tratta della Shoah, tema che continuerà tormentarmi sino alla fine dei miei giorni. Non l’aveva letto. Ricordava solo che questo piccolo testo divenne un caso letterario in Francia negli anni Novanta. Non mi è sembrato un testo sulla Shoah, anche se la relazione con essa è indubbia.
Diciamo subito che è un testo paradossale: 18 pagine considerate per molti anni un testamento originale, un documento autentico redatto da uno dei rivoltosi del Ghetto. Un testo talmente convincente e credibile (o meglio: talmente grande è la sua capacità di assecondare il bisogno di credere) che pare ci sia ancora qualcuno a New York o in Israele – i più tenaci, i più integralisti, i più fanatici? –convinto che si tratti di una testimonianza autentica e che l’autore, tal Zvi Kolitz, sia di conseguenza un impostore, un provocatore blasfemo. Insomma, una storia nella storia degna del miglior Borges.
Una storia, o meglio un incubo, dove si narra delle ultime ore di Yossl, ultimo dei rivoltosi del Ghetto di Varsavia che ancora combatte, i corpi dei compagni caduti attorno a lui, mezzo sepolto nell’ultimo bastione non ancora conquistato dalle SS. Yoosl che si cosparge il corpo con la benzina di una delle ultime bottiglie incendiarie rimastegli, pronto a darsi fuoco, certo di morire con il sorriso sul volto che hanno tutti coloro che credono in Dio e nella sua Legge. E’ con Dio, il dio feroce, lontano e inaccessibile dell’Antico Testamento, che Yossl parla. Un dialogo all’insegna del più perfetto, del più totale, del più assoluto misticismo. (mi accorgo che in questo paragrafo l’aggettivo ultimo compare ben quattro volte…)
Il testamento di Yoosl, il suo furibondo rivolgersi a Dio, fu scritto in modo così credibile da essere ritenuto per anni una testimonianza autentica degli eroi del Ghetto, come una reliquia riaffiorata miracolosamente dalle macerie molti anni dopo: forse gli uomini del nostro tempo hanno un bisogno una volta ignoto di ristorare la loro fede, di corroborarla con testimonianze mirabili e meravigliose. Ovvio che l’autore che ne rivendica dopo anni la proprietà intellettuale, Zvi Kolitz sia per l’appunto ritenuto un ladro, un provocatore, un profanatore indegno.
Come ben sanno i quattro sfaccendati che insistono a leggermi, la tecnica del ritrovamento usata da Zvi è un espediente classico in letteratura (cfr. ad esempio il “Manoscritto trovato in una bottiglia” di Poe e il “Manoscritto trovato a Saragozza” di Potocki.). Eppure la credibilità della sua scrittura dipende con buona evidenza dal fatto che l’autore è parte integrante di quel mondo, di quella sensibilità, di quel dolore insanabile che la rende verosimile e quindi vera, come testimonia la seconda sezione del libro dove viene narrata la vita avventurosa dell’autore e le vicende che hanno portato a ritenere autentica la sua finzione poetica.
Ebbene, che sapore hanno le 18 pagine in cui Yoosl dialoga da pari a pari con il suo Dio? La prima cosa che mi viene alla mente è l’estraneità tra il dialogo feroce di Yoosl e la bizzarra soavità che emana un classico della letteratura ebraico-orientale, i racconti strampalati e teneri del sogno chassidico. E’ la Shoah che trasforma i miti indifesi ebrei orientali cresciuti nei miserabili shtetl di Polonia, Russia, Ucraina – gli Ostjuden come venivano chiamati con disprezzo – nei combattenti spregiudicati e tenaci che nell’immediato dopo guerra costruiranno lo Stato d’Israele? E’ la Shoah che trasforma Yoosl in un soldato che combatte in nome di Dio con lo stesso spaventoso furore degli eserciti d’Israele dell’Antico Testamento? E’ la Shoah che fa sì che la vittima introietti il persecutore sino al punto di non potersene più liberare? A quell’anima antica e terribile Zvi Kolitz dà volto e voce; è quell’idea di fede antica, e al tempo stesso perfettamente contemporanea visto il riconoscimento, che l’autore ricrea. O meglio: svela e riconosce.
Un’idea di Dio spaventosa e al tempo stesso parodistica che rimanda ad un’epoca in cui l’umanità si rivolge alla divinità con tremore e terrore, pronta ad obbedire ad ogni richiesta, ordine o prova, come narrano le spaventevoli storie di Giobbe e di Abramo, l’uomo la cui fede è messa alla prova con la richiesta di sacrificare l’unico figlio come un capretto. Abramo, la cui mano armata di pugnale viene fermata just in time dall’angelo inviato dal Signore.
Una scrittura mistica quella dell’ebreo Kolitz, l’avventuroso combattente per la dignità del suo popolo, in cui domina sovrana un’idea di fede non molto diversa né meno feroce di quella praticata oggi da uomini altrettanto determinati e privi di dubbi. Un’idea di fede in cui il buio primordiale è squarciato dalla lama del coltello. In cosa affondano le radici del misticismo è un mistero.
Spread the word (detto anche più semplicemente “passaparola”)
Se quello che hai letto ti è piaciuto consiglia a un amico di iscriversi, oppure inviagli questo post. Domande, critiche e suggerimenti sono più che (ben) accetti: basta scrivere a lenuovemadeleine@gmail.com