Il 26 aprile del 1986, sabato, era una bella giornata di primavera. Non ricordo se andammo al parco Forlanini quel giorno oppure quello dopo, o se entrambi. La ex-corta che mi somiglia non aveva ancora un anno, e il pascolo sui prati era una sorta di must allora come oggi. Alle ore 1,23 di quel giorno “una nuvola di materiale radioattivo fuoriuscì dal reattore di Cernobyl e ricadde su vaste aree intorno alla centrale, contaminandole pesantemente… In breve tempo le nubi radioattive raggiunsero anche l’Europa orientale, la Finlandia e la Scandinavia con livelli di contaminazione via via minori, toccando anche l’Italia, la Francia, la Germania, la Svizzera, l’Austria e i Balcani…”. Le raccomandazioni sanitarie sconsigliavano di dare latte ai bambini, mangiare formaggi freschi e ortaggi a foglia larga. (Il particolare della “foglia larga” mi fa venire in mente la conclusione delle favole, dove ad essere larghe sono le strade; pare che “foglia stretta” sia generato da un refuso: stretta doveva essere in origine la soglia, intendendo con ciò la difficoltà insista in ogni inizio affabulatorio).
L’otto e il nove novembre dell’anno dopo gli italiani furono chiamati alle urne per votare tre quesiti referendari
- attribuire al Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) il potere di determinare le aree dove insediare le centrali elettronucleari, nel caso non lo facessero le Regioni;
- autorizzare l’Enel a versare contributi a Regioni e Comuni in proporzione all’energia prodotta sul loro territorio con centrali nucleari o a carbone;
- consentire all’ Enel di «promuovere la costruzione» di impianti elettronucleari «con società o enti stranieri» o anche «assumere partecipazioni che abbiano come oggetto la realizzazione e l’esercizio di impianti elettronucleari» all’estero.
Riportano le cronache che la scelta fu nettamente antinucleare, ma ben 35 cittadini su 100 non andarono a votare. Di fatto, anche se non de jure, i referendum segnarono l’uscita dell’Italia dal nucleare.
Così, mentre nel resto d’Europa i programmi nucleari proseguirono e oggi le centrali attive che circondano l’Italia sono 148, il nostro paese abbandonò totalmente un settore tecnologico nel quale svolgeva un ruolo d’avanguardia. Perché compimmo quella scelta è chiaro, e lo fu anche all’ora. L’emotività, o meglio: la paura vera e propria, prese il sopravvento sulla ragione e sulla ragionevolezza. Forse i votanti antinucleari – anch’io fra essi ovviamente – pensarono che le malefiche particelle, contrariamente a quanto fanno i migranti, si sarebbero disciplinatamente fermate alle frontiere; del resto il trattato di Schengen era di là da venire.
Platone, l’inventore della filosofia, in uno dei suoi mirabili testi redatti nonostante la sua nota avversione per la parola scritta, mette in guardia sulla democrazia che può trasformarsi in dittatura “…quando, per sete di libertà e per l’inettitudine dei suoi capi, precipita nella corruzione e nella paralisi. Allora la gente si separa da coloro cui fa la colpa di averla condotta a tale disastro e si prepara a rinnegarla prima coi sarcasmi, poi con la violenza che della dittatura è pronuba e levatrice. Così la democrazia muore: per abuso di se stessa. E prima che nel sangue, nel ridicolo”.
Per nostra fortuna Platone ha abbastanza torto. La democrazia, per quanto ampiamente imperfetta, continua ad essere la migliore tra le peggiori forme di governo. Ma sul fatto che il popolo 2500 anni fa come oggi continui ad essere facile preda di demagoghi e sofisti, l’uomo dalle ampie spalle aveva visto giusto.