Come è accaduto al Natale e al giorno di Pasqua, la festa della famiglia e della resurrezione trasformati in pop-up pubblicitari, anche il Giorno della Memoria ha già subito un’irreversibile metamorfosi. La conferma l’abbiamo dai palinsesti telivisivi, zeppi di programmi di genere: film, documentari, talk-show e concerti dedicati alla Shoah.
Come qualcuno molto più autorevole di me ha affermato l’anno scorso, il Giorno della Memoria non riguarda (non dovrebbe riguardare) gli ebrei, costantemente costretti a non smettere di ricordare: gli attentati di cui sono oggetto in Europa – Marsiglia, Bruxelles, Parigi – comunque non glielo consentirebbero.
Il Giorno della Memoria è per noi. Per i così detti gentili e per tutti i “non-ebrei” – musulmani, atei, buddisti, scintoisti, animisti… – che popolano la Terra. Siamo noi che non dobbiamo smettere di ricordare. Quelli che non hanno visto; quelli che hanno fatto finta di non vedere; quelli che ancora oggi non vorrebbero vedere nè sapere.
Siamo noi, noi Europa, quelli della Shoah. E’ accaduta qui, nel centro più civilizzato del pianeta, resa possibile dal sostegno – nel migliore dei casi solo volenteroso, nel peggiore entusiastico – di migliaia di “semplici” cittadini, di corpi di polizia, di istituzioni municipali: tedesche, austriache, polacche, olandesi, francesi, italiane, croate, spagnole, lituane, estoni, lettoni, norvegesi, bielorusse, greche…
L’altra sera l’ennesimo trailer dell’ennesimo film sull’Olocausto mostrava un bambino di sette-otto anni rivolgersi (alla madre, al padre?) chiedendo inutilmente “perchè ci odiano tanto?”.
E’ la stessa domanda che retoricamente mi sfuggì dalle labbra nel corso di un viaggio di lavoro. Ero in compagnia di una così detta “brava persona”, un cliente insieme alla quale mi stavo recando ad una Fiera.
Nel corso del tempo e delle mie (piccole) esperienze concentrazionarie (collegi dei preti, esercito italiano) ho imparato a temere le brave persone. Il soggetto in questione, giovane uomo dall’apparenza mite, spiccava per due caratteristiche che sommate fra loro formano una miscela pericolosa: la formazione culturale meramente tecnica, priva quindi di riferimenti umanistici; il naturale spirito gregario che lo spingeva a ricercare con voluttà il consenso delle gerarchie. (Pare che un simile meccanismo psichico agisca nei cani e negli animali che vivono in gruppo, bisognosi di gerachie rigorosamente definite a tutela della stabilità del branco e garanzia di sopravvivenza del singolo).
Alla mia domanda retorica – “perchè sempre loro, perchè tanto odio?” – la sua risposta riuscì nel miracolo di stravolgere la logica insieme alla legge morale: “Mah, chissà! Ma del resto, se nei secoli tutti ce l’hanno avuta con loro, un motivo dovrà pur esserci, no?”.
E’ quel “tutti” che mi fa paura. E’ il branco che risponde agli stimoli della parte più antica del cervello, quella rettiliana. E’ l’abbandono della conquista dell’Illuminismo: la volontà di ragionare con la propria testa.
Così, la terribile domanda di Primo Levi – “…se questo è un uomo che lavora nel fango che non conosce pace che lotta per mezzo pane che muore per un si o per un no” – andrebbe rivolta ogni giorno a noi stessi: cosa rende umano l’umano? E cosa lo trasforma in disumano?