Sono un ignorante il cui unico talento è la curiosità. E’ questa la molla che mi spinge a continuare a leggere opere di divulgazione scientifica nonostante ne abbia compreso la sostanziale inutilità. Praticare testi sulla meccanica quantistica, sui buchi neri o sulla teoria delle stringhe al mio livello sotto zero di conoscenza/comprensione delle matematiche, è sensato quanto iscriversi a un corso di wind surf per corrispondenza. Le cose della mente e del corpo se non vengono praticate assiduamente, con la stessa ferma costanza con cui il buon bergamino maneggia le mammelle della vacca, si perdono due secondi dopo averle mandate a mente e (forse) comprese. Fermo restando che in ogni disciplina, come giustamente ricorda De Andrè in “Bocca di rosa”, oltre all’impegno ci vuole un minimo di vocazione.
Eppure, nonostante la mia pochezza vado pazzo per la scienza e in particolare per la fisica. Ovvero, per la storia del pensiero scientifico, disciplina autenticamente fondante. Consente di “prendere le misure” di un’epoca, un paese, una civiltà.
Questa piccola madeleine è la storia di un incontro ritardato per incuria e snobismo. Il piccolo libro di Carlo Rovelli pubblicato da Adelphi, mi sembrava un palliativo, una sorsata di acquetta fresca, rispetto alla perentorietà dei tomi che nonostante tutto mi ostino a frequentare (i libri non si leggono: si abitano e si frequentano).
Invece, qualche mattina fa il Rovelli me lo ritrovo nel letto. Nel senso che mi entra nell’orecchio sinistro proveniente dalla radiosveglia (provvidenzialmente) puntata su Radio24. Oh capperi, che sorpresa! Un signore garbato e puntuto al tempo stesso, che parla di scienza e di sapere scientifico con semplice profondità. Un signore che si dichiara “serenamente ateo” senza per questo far intendere che tutti gli scienziati di valore debbano necessariamente esserlo.
Chi mi legge con una certa frequenza sa che detesto i miliziani dell’ateismo quasi quanto i cavalieri delle fede. Serenamente, ma senza che la sua pacatezza ceda di un centimetro alle scempiaggini di chi confonde la scienza con la religione e i fatti con i miti. Ascolto e scopro che il suo libro “Sette brevi lezioni di fisica” (titolo che ricorda il mitico “Sette pezzi facili”, una presentazione divulgativa del grande fisico americano Richard Feynman che facile non era affatto…) ha venduto nel paese dei somari già 160.000 copie. Incredibile.
L’ho comprato (e letto) il giorno stesso. E il giorno dopo ho comprato quello che Alessandro, il mio libraio del cuore, considera l’originale: “La realtà non è come appare”, Cortina Editore.
Perchè bisogna leggere Carlo Rovelli? O meglio: perchè è un gran godimento leggerlo? Nelle sue pagine l’annosa, la fastidiosamente neocrociana disputa delle “due culture” viene finalmente a cadere. Un fisico di grande livello che si occupa anche di storia della scienza e di epistemologia (ma dove trova il tempo?). Un fisico che studia la gravità quantistica, che conosce i filosofi del Novecento e la poesia classica latina. Un fisico che sa spiegare con semplicità la complessità e ha il coraggio di affermare il primato del dubbio.
Invece di norma che accade? Ci si trova di fronte, ed io ne ho conosciuti parecchi, tecnici di altissimo livello: fisici ultra specializzati di valore mondiale incapaci di qualsiasi riflessione filosofica sulla natura delle cose. Persone che lavorano in laboratori d’avanguardia americani e europei e non sono in grado (peggio: non interessa loro) di andare al di là del dato. Come se fossero terrorizzati dall’idea di uscire dal recinto rassicurante del governo puramente tecnico del loro strumento di misura. Soddisfatti dal risultato “letterale” dell’esperimento. Ottime, noiosissime persone, perfettamente inserite nell’incultura di massa che segna il nostro tempo: deprimenti le loro letture, banale la loro musica, insignificanti gli argomenti delle loro serate. Il sapere come tecnica. Il sapere come numero. Il sapere come fatto. Il sapere come prestazione. Punto.
L’altro corno del problema è l’insopportabile, vacuo arrogante bla-bla dei filosofi di professione che negano il ruolo e l’importanza della scienza e della fisica in particolare. Come i maschi di pecora di Yellostone che passano l’autunno a incornarsi per stabilire il diritto a riprodursi, questi anziani professionisti del vuoto pneumatico sostengono che spetti alla filosofia guidare la scienza come un cane per ciechi. La scienza del resto sarebbe solo tecnica, come sosteneva uno tra i maggiori responsabili dell’obbrobrio dei nostri programmi scolastici. L’antifascista ritardato (nel senso che si accorse in ritardo) che non solo detestava il pensiero scientifico, ma per equità cerchiobottista negò status e importanza pure alla psicoanalisi. (una bambolina in premio a chi indovina il nome).
E’ solo la filosofia che può studiare l’essere e il tempo, sosteneva quel mascalzone di Heidegger, negando validità alla fisica di quegli anni – tra l’altro copiosamente giudaica, vero Martin? – sconvolto dal fatto che le ricerche della Scuola di Copenhagen capitanata dal grande Niels Bohr, mettevano in luce come nell’infinitamente piccolo quantistico il tempo (forse) non esista.
Peccato che le grandezze o le miserie dei filosofi filosofanti non possano essere dimostrate. Non scientificamente almeno. Mentre la meccanica quantistica di cui ancora troppo poco si sa e molto si sospetta, “funzioni” come un orologio svizzero e sia alla base di tutte (sì, pare proprio tutte) le applicazioni tecnologiche che hanno cambiato la nostra vita.
Neppure il grande Einstein (il solito giudeo, vero Martin?) amava la fisica quantistica. Combattè tutta la vita per trovare senza riuscirci una teoria che unificasse il tutto, relatività generale e meccanica quantistica, gravità e forze nucleari. Non l’amava perchè è probabilistica – di più: è un delirio di probabilità – al punto che una “cosa” (elettrone, fotone, quark e compagnia cantante) forse c’è se e quando lo osserviamo; forse esiste se interagisce con qualcos’altro. Se no ciccia al culo, come ama dire la mia amica EBA.
Carlo Rovelli sa scrivere di fisica e ci aiuta a comprendere qualcosa. Ciò di cui scrive è il risultato di una profonda comprensione. Per questo scrive semplice. Diffidare sempre di una scrittura aulica, involuta, oscura, gergale, tecnica o contorta! O parlano non sapendo una mazza, oppure vi vogliono uccellare. Lui scrive chiaro e scrive bene, perchè sa di cosa sta parlando. E quindi può affrontare temi che farebbero uscire di senno anche il Gatto del Cheshire (che appare e scompare come le particelle elementari).
E’ questo il modo in cui la scienza ridiventa ciò che deve essere. Ancella dell’uomo, riflessione sulle cose, sulle origini, sul passato e sul futuro. Sulla natura e sulla vita. Pensiero sul nostro essere umani. I soli animali che pur sapendo di dover presto morire, non smettono di essere curiosi e di farsi nuove domande. Il bello della scienza è il dubbio: non esiste nulla di più noioso delle certezze. Specie quando sono false.