Ho letto “I sommersi e i salvati” in un momento difficile, reduce da un intervento chirurgico banale quanto doloroso. Forse la condizione ideale di accostarsi all’ultimo lavoro di Primo Levi, il suo testamento politico e spirituale. La stanchezza della mente che finalmente si concede una tregua dopo lo sforzo compiuto nell’attendere e poi sopportare la sofferenza fisica, faceva sì che la percezione delle parole scandite dalle pagine avvenisse in modo fluttuante; una sorta di sospensione onirica interrotta da una domanda insistente, angosciante quanto priva di risposta: se fosse toccato a me, come mi sarei comportato? Se fosse toccato a me, quale zona avrei occupato?
Nonostante siano passati più di trent’anni dalla sua pubblicazione, non c’è saggio più contemporaneo di “I sommersi e i salvati”. Ne sono testimonianza le parole pronunciate dalla signora Merkel ad Auschwitz, non so se più nobili o più coraggiose. La memoria dimentica, dilata, deforma; la memoria degli uomini svanisce e insieme ad essi il monito inascoltato di Primo Levi: è accaduto, quindi potrebbe accadere di nuovo.
Mentre scrivo queste note apprendo della morte di Pietro Terracina, uno degli ultimi testimoni, tra i più instancabili nel monito e nella denuncia. Tra pochi anni non resterà più nessuno di loro, di chi può dire “io c’ero”, “io ho patito”, “io sono testimone”.È questa la ragione, forse la più importante, della cura che dobbiamo riservare ai luoghi dello sterminio: la labile memoria degli uomini lascia il posto ai documenti della ricerca storica, gli strumenti della formazione della coscienza collettiva. E qui veniamo alla più drammatica delle conseguenze lucidamente preconizzate da Levi: la rimozione, l’indifferenza, che precedono e concorrono all’evento successivo, la banalizzazione dei fatti, la relativizzazione, i precursori della negazione.
Abbiamo la fortuna, non certo il merito, di vivere in una società aperta, il frutto del fuoco del Novecento. Concetto base delle società aperte è la convinzione che l’umanità non disponga di verità assolute, ma solo approssimazioni; sicché ogni individuo ha il diritto di godere della massima libertà di espressione, e di conseguenza ogni forma di autoritarismo è ingiustificata. Purtroppo le società aperte come quella sia pur imperfetta in cui viviamo sono infinitamente più fragili dei regimi totalitari; basti pensare che permettono a tutti (proprio a tutti) di partecipare ai processi decisionali; le conclusioni a cui giunge Karl Popper sono note: se concediamo illimitata tolleranza anche agli intolleranti – ai violenti, ai razzisti di ogni ordine e grado, ai negazionisti – se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro l’attacco degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza insieme ad essi. “Noi dovremmo quindi proclamare, in nome della tolleranza, il diritto di non tollerare gli intolleranti”. L’episodio del miserabile docente di Sienaè l’epifenomeno di una malattia infinitamente più grave: l’assenza di una élite politica e culturale in grado di stabilire in modo univoco e non negoziabile quale sia il limite oltre al quale termina la civiltà e inizia la barbarie.
(Come da tradizione, la Germania fa i conti con i negazionisti Alternative für Deutschland; noi che al dramma preferiamo di gran lunga la farsa, invitiamo Minghi in Senato a cantarci “Vattene amore”)