Quanti sono i generi di regia teatrale? Me ne vengono in mente tre: rispettoso alla lettera del testo e della tradizione; concettual-simbolico, laddove la scenografia è inesistente oppure ridotta a pura presenza iconica; liberamente, quando il gioco dell’interpretazione la fa da padrone sul testo e sulla storia del testo.
Nel primo caso si rischia poco: Amleto se ne sta nel suo castello, Aida sparisce come da contratto sotto la fatal pietra, le Valchirie cavalcano la scena con le corna di mucca sulla testa. Se invece la scelta di regia pigia il tasto dell’astrazione concettuale, tutta l’attenzione è concentrata sulla recitazione pura e il rischio che si corre è la staticità (se non la noia). Ricordo un Re Lear di Strelher con Tino Carraro e Ottavia Piccolo. Memorabile. Sulla scena solo una (piccola) collinetta, molto metafisica. Forse un po’ troppo.
Per quanto riguarda invece le così dette libere interpretazioni, c’è di tutto. Un sublime e spaventoso Riccardo III vestito da nazista, circondato da carri armati e rovine fumanti, uno splendido “Flauto Magico” ambientato tra le trincee britanniche della prima guerra mondiale; ma anche pecionate terribili dove il regista e ancor più lo scenografo fanno di tutto per épater il pubblico con lazzi, tette e culi di fuori, e trovate da vaudeville spacciate per avanguardia.
C’è una quarta categoria. Mi viene da chiamarla cine-teatro. Forse ha il suo bravo nome tecnico, ma non lo conosco. La crasi avviene quando si fondono insieme le tecniche e i linguaggi del cinema e del teatro senza che le une sovrastino le altre. (Per intenderci, le classiche zeffirellate come il suo “Romeo & Giulietta” non sono cine-teatro, ma cinema- cinema e pure di sapore hollywoodiano). Un esempio perfetto e meraviglioso per l’incantamento che ho ancora addosso, è il “Flauto magico” di Ingmar Bergman che vidi molti anni fa. Un capolavoro d’intelligenza, delicatezza, poesia, fusione totale con lo spirito della musica mozartiana. Ed economia di mezzi, che è (forse) la chiave del successo.
Ma ecco che oggi mi arriva come un dono degli dèi “The hollow crown”, una miniserie televisiva inglese che riadatta le opere shakespeariane (Riccardo II, Enrico IV, parte I, Enrico IV, parte II e Enrico V.). Una sorpresa, un’epifania di bellezza. L’ennesima dimostrazione che fare televisione di alto o altissimo livello è (ancora) possibile. Ecco, televisione. L’accrocchio magico non riguarda più quindi solo il cinema e il teatro, a questi “strumenti-linguaggi” se ne unisce un terzo.
Andando al sodo, perché la serie “The hollow crown” mi è parsa un capolavoro? Escludendo l’insopportabile Riccardo II, un’opera già debole di suo (anche i geni assoluti come Shakespeare hanno la loro infanzia creativa e i loro bravi momenti di débâcle) nella quale sciagurate scelte di regia consentono al re di atteggiarsi peggio di una drag queen alla Gay Pride Parade; il culmine lo raggiunge prigioniero seminudo nella Torre, pur col freddo che doveva esserci, dove il re detronizzato fa il verso alla peggior iconografia di San Sebastiano martire.
Salito finalmente al trono Enrico IV, la serie prende il volo. Perché funziona? O meglio, perché questa cosa fatta per la televisione che non è cinema e non più teatro, è così bella?
Penso che la risposta sia a un tempo semplice e complessa: funziona perché riesce a trasmettere tutta la potenza, l’incantamento e la magia del testo. Un testo che scava con tale profondità nella vastità della mente umana, da porsi contemporaneamente nel suo tempo – l’Inghilterra medievale – e fuori dal tempo, diventando eterno perchè assoluto. Che è poi sempre il tratto distintivo del capolavoro: il particolare che diventa universale. Pensiamo al tempo omerico di Odisseo oggettivato dal racconto della vita dei re pastori nell’undicesimo secolo avanti Cristo, al realismo narrativo reso dai dettagli – il cibo, le vesti, gli attrezzi, le armi – e all’eternità assoluta del tema del ritorno, alla modernità di Odisseo primo “eroe contemporaneo”. (Non a caso Joyce chiama Ulisse il racconto dell’avventura umana di Leopold Bloom.)
Questo racconta Shakespeare a noi uomini del terzo millenio portando in primo piano quella simultanea presenza, a volte confusa a volte netta o in via di distinzione, che compone l’animo umano, l’ambivalenza e l’ambiguità, la contraddizione e la pluralità, il senso della vita e il richiamo della morte, il buffo e il tragico, il meschino e il sublime. Ma come riesce a trasmettere tutta la potenza poetica del testo la macchina narrativa, l’ircocervo teatro-cinema-tv? Provo a darmi una risposta,
1. Economia e misura di mezzi
Quatto assi di legno e siamo nella taverna dove Falstaff, Pistol e Bardolf gozzovigliano insieme al principe Hal. Una sola inquadratura, sempre la stessa, basta a restituirci la lurida Londra del Trecento: una strada affollata da gente cenciosa, un porco scannato sul carretto del beccaio. Un muro di pietra: un castello. Un prato fangoso e un cupo bosco notturno: la vittoriosa campagna di Francia. Una navata gotica: la sala del trono. Un corridoio illuminato dalla luce di un cortile: l’ambiente degli intrighi a corte. Un grande letto nel vuoto di una grande stanza: la solitudine (anche fisica) di re Enrico IV. Ergo, basta poco – basta il giusto verrebbe da dire – e il mondo delle passioni e degli affetti shakespeariani prende volto e volo.
2. Tecniche di ripresa
Campi e controcampi, piani sequenza e un uso (moderato) di inquadrature zenitali esaltano in massimo grado il lavoro degli attori che, vivaddio, recitano come solo i bravi artigiani della parola sanno fare. E la storia ti prende e non ti lascia più, anche se sai già come andrà a finire. (di ogni capolavoro sappiamo l’esito. Eppure godiamo come ricci a primavera. Solo nei sottogeneri letterari come il maledetto noir oggi così di moda, guai a rivelare l’assassino. Forse perché c’è molto poco d’altro?).
3. Casting
Grandi attori. Qualcuno (Jeremy Irons re Enrico IV; Tom Hiddleston, nella parte del principe Hal e poi di Enrico V) addirittura straordinari.
4. Lingua
Il meraviglioso inglese di Shakespeare (di cui non comprendo una sola parola) risuona in modo incredibilmente emotivo: è musica. E i sottotitoli mi paiono scritti in un italiano eccellente, perfetto nel rendere la magia dell’incantamento poetico.
5. Comfort
Qui entra il bello della televisione, o meglio degli artifici del computer. E’ finalmente fantastico poter fare un fermo immagine per riposare gli occhi dopo tanti sottotitoli o perché, più banalmente, natura preme e ci scappa la pipì. E’ esaltante l’idea di poter fare un rewind e rivedere una volta e poi ancora e ancora, il re che esorta le truppe ad essere una “band of brother”, o Enrico IV che stramazza esanime dopo aver posto sul capo la corona al figlio. Tutte cose che a teatro non sono possibili. E neppure al cinema.
Certo, il teatro è un’altra cosa. Gli attori dal vivo. Gli spettatori. Il clima. Gli applausi. Lunga vita al teatro, anzi ai teatri di tutto il mondo. Il teatro è il teatro, e il cinema è il cinema. (Solo la tv non si capisce più bene cosa sia, ma questa è un’altra storia).
Eppure a me piace pensare che se Shakespeare avesse avuto a disposizione una telecamera digitale e un parchetto luci come si deve, si sarebbe divertito più che parecchio. E pure Amadeus, tanto per gettar sul tavolo i carichi da novanta, lui che sperimentò il clarinetto fresco d’invenzione e abbracciò subito il forte-piano per poi abbandonarlo quando poco dopo divenne piano-forte, pensate cosa avrebbe combinato lui, il divino, se avesse avuto tra le mani le diavolerie elettroniche dei Pink Floyd.
Anche nell’arte è la contaminazione, il meticciato, l’ingrediente che trasforma ogni volta la morte in vita. E la vita in nuova gioia per gli occhi e per il cuore.