Indossare la mascherina non credo faccia piacere a nessuno. Stesso ragionamento per il preservativo. Nonostante gli sforzi dei produttori, mai conosciuto un maschietto felice di sigillarsi il pippolo nel Domopak. Nonostante la palese diversità di utilizzo, entrambi gli oggetti fanno parte di un comune milieu culturale. Come lo spazzolino da denti, il sapone e il deodorante, anche il loro impiego definisce l’appartenenza al perimetro della (attuale) idea di civiltà che, come tutti i valori, cambia nel tempo: quando padre Dante passeggiava per Firenze era ritenuta buona creanza avvertire il passante prima di sversare il pitale nella pubblica via.
Diciamo quindi che dopo il condom anche la mascherina è diventata una bandiera. Un elemento di distinzione che comunica una scelta di campo netta e radicale; grazie al fatto di essere immediatamente visibile, offre il vantaggio di informarci che chi l’indossa sarà magari un mascalzone, ma educato e di bel garbo. Una scelta d’ordine, si sarebbe detto un tempo. Di quelle che piacciono a coloro che amano le divise, le gerarchie, i controlli, i comandi, gli ordini e la disciplina; resta da capire come mai il fronte anti-maschera sia così densamente popolato da sovranisti, seguaci dei regimi forti, donne e uomini che seguitano a chiamare froci i gay e negri i neri, ma anche questo è un mistero che al confronto il problema dei tre corpi è robetta da asilo Mariuccia.
Non si sa per quanto tempo ancora sarà buona norma indossare la maschera. Forse per sempre. O almeno ogniqualvolta si sia affetti da qualcosa di trasmissibile per via orale, come insegnano gli orientali. Credo sia il caso di essere fiduciosi. In fondo è da qualche secolo che a Londra, Firenze o Parigi le escrezioni si è imparato a gettarle nel gabinetto.