E’ stato un amore grande. Meglio: grandissimo. Ma è finito malamente. E come tutte le cose grandi che finiscono nel rancore e nel discredito, la velocità di caduta amplifica fragorosamente la legge di gravità. Trattandosi di un amore, non dovrei parlarne pubblicamente. Un gentiluomo, si sa, dovrebbe limitarsi a godere tacendo. Eppure la questione, sia pur così dolorosamente personale, ha risvolti che riguardano molti di noi. In fondo è anche un fatto di costume.
Ci siamo conosciuti che ero appena laureato. Lei stava lì seduta sulla scrivania di un ufficio très chic di via Turati e fissava il mondo con il suo gigantesco occhio sgranato. Erano i tempi in cui tutto era bianco oppure nero. Erano i tempi in cui i computer Apple si facevano chiamare Macintosh e la mela era dipinta da un arcobaleno orizzontale di colori.
Erano i tempi in cui Apple era l’innovazione che fa la rivoluzione. Del modo di scrivere, archiviare, lavorare, comunicare. Le finestre, il desktop, il mouse, il cestino. Il “predi lì” e “sposta là”. Il “clicca due volte” e le cose si “aprono”. Apple, la macchina pensata per tutti i pirla come me ai quali non può fregare di meno dei saperi ingegneristici che stanno dentro un computer. Cento giapponesi piccoli piccoli a far girare i bit o un genio della lampada, fa lo stesso. Frega una sega, come dicono dalle parti del Renzi, basta che funzioni. A quelli come me, ed erano milioni, interessava fare le cose, non l’ingegneria informatica. Scrivere, postare, navigare, fare di conto (molto limitatamente, eh). Punto. Quello che sta dietro o dentro la macchina era (è) insignificante. Si infila la chiave, si gira, pronti via.
Purtroppo gli anni passano per tutti. Anche per la mia schiena e per il MacBook dal quale vi scrivo. Dopo otto anni di onorata carriera, il grande amore della mia vita sta morendo. E’ ora di sostituirlo. Con dispiacere, con una punta di dolore persino: quante cazzate hanno supportato questa tastiera e questo schermo, le sole cose “visibili” e quindi di fatto “importanti” di un portatile. Le batterie? Fumate due anni fa e mai sostituite. Il trackpad? Inservibile per via delle batterie avariate che gonfiandosi l’hanno acciaccato. La velocità? Sempre più scarsina, per via dei malanni che il software inevitabilmente accumula e per l’ingigantirsi progressivo dei programmi e del peso delle pagine web.
Come il corpo di un anziano – occhi, reni, cuore, polmoni e fegato – anche il mia amato Mac perde colpi. Sarebbe felice (come tutti i servo-meccani generosi) se lo sostituissi con una macchina più giovane, più bella. Performante come era lui ai suoi bei tempi.
E’ qui che l’amore ha l’inciampo. Un Mac “più giovane e performante” costa circa 3 volte di più di un pc dello stesso formato e con lo stesso equipaggiamento. 3 volte di più senza essere 3 volte più veloce. 3 volte più performante. 3 volte più sicuro.
E’ qui che ho compreso come la rivoluzione sia diventata casta e i rivoluzionari nomenklatura. L’innovazione è diventata istituzione, corporazione, ghetto. Come gli alberghi per arabi ricchi. Come i ristoranti per russi ricchi. Come le merci nel duty free shop per cinesi scemi.
Ci fu un tempo in cui girare con un Apple significava dichiarare l’appartenenza ad una tribù. Chiunque facesse (o sperasse di fare) un mestiere “creativo” girava con un Mac nello zaino e poi sottobraccio quando prese la forma di Ipad. Chiunque lavorasse nell’editoria, nella pubblicità, nel mondo della comunicazione o dell’arte, “non poteva non avere” che un Mac. Per via dei programmi, delle suite, dei cazzabubboli che giravano lì e non giravano là. Robusti, inattaccabili, solidissimi, semplici e belli. Molto belli. Sempre più belli. Ecco il magico mondo Mac, non avrai altro pc all’infuori di me, recitava il comma uno del decalogo di Cupertino.
Ora tutto gira (o non gira) ovunque. I pezzi di valore nella pancia del Mac (processore, schede video etc. etc) hanno perso esclusività ed unicità e sono montati da mani cinesi a condizioni lavorative e ambientali rigorosamente cinesi. Cioè disgustose.
Mac è diventato un status symbol. Lo era anche prima. Ma oggi è un simbolo diverso dalla triade innovazione-anticonformismo-liberazione celebrato dal famoso spot 1984 (mannaggia, non riesco a collegare il link) che trovate a questa url: https://www.youtube.com/watch?v=vNy-7jv0XSc.
Uno status symbol de che? Della sora Pina, temo. Di chi, spesso o quasi sempre, non c’entra una mazza coi famosi “lavori creativi”. Gggente che ha bisogno della mela per darsi un tono, tirarsi un po’ su. Venditori di auto, magari pure usate. Parrucchieri di semi-centro. Punti vendita del vorrei-ma-non-posso. Geometri mancati architetti. Peraccottari di Lodi. Tutti creativi, tutti cavalieri anche senza il cavallo.
Così, anche il design solo forma niente funzione come il marketing tutto eguale per tutti ormai dorme sulla collina di Spoon River insieme agli altri diecimila morti che la strategia dell’obsolescenza programmata (trovare notizie qui: https://it.wikipedia.org/wiki/Obsolescenza_programmata) ha pianificato, progettando i tempi ideali in cui gli oggetti devono guastarsi affinchè siano sostituiti. Oppure, semplicemente, non siano più di moda.
Io me ne vado. Vado via a testa bassa come nelle canzoni di Josè Feliciano. Non è un anatema o, peggio, il rancore terribile che lo spretato manifesta per la sua vecchia chiesa. Ingenuo e speranzoso come tutti gli amanti di lungo corso attendo l’arrivo di tempi migliori. Quando Apple tornerà ad essere la meravigliosa, libera e anticonformista californiana di un tempo.
Sarà bellissimo dirle, di nuovo come se fosse la prima volta, amore mio, quanto tempo! Sto bene? Certo, ora che sei finalmente tornata a sorridermi dallo schermo.