Tendenze

By on Mag 18, 2016 in Comunicazione, Contemporaneità

Dovrò leggere prima o poi (prima che poi) “L’idea di città” di J. Rykwert. Nel nostro paese l’ha editato tanto per cambiare la solita Adelphi (grazie Calasso). Perché leggerlo? Il risguardo di copertina del costoso volume (perbacco, Calasso) recita: “…uno degli studi capitali di Joseph Rykwert, ormai divenuto un indispensabile punto di riferimento non solo per architetti e urbanisti, ma per chiunque abbia a che fare con la nozione di città. Di fronte alla desolante povertà del pensiero urbanistico contemporaneo.”.

Rykwert è nato a Varsavia nel 1926. Le fotografie in rete (date un occhio) ci propongono l’immagine di un omino col volto gentile e furbetto da topino, un anziano sorridente signore scappato dalla triste Polonia e diventato un’autorità nel suo mestiere in America, tanto per cambiare (ma quanto l’abbiamo nutrita ‘sta America?). In una recente intervista pubblicata su Rep, il vecchietto-topino afferma con arguzia che la sua idea di architetto (urbanista) è quella del boy-scout, di chi cioè non può esimersi dall’essere ottimista.

E in effetti guardando le nostre orrende periferie e le nostre malconce città, c’è poco da esserlo. Soprattutto pensando, come dimostra Rykwert, come “la città sia, prima che una realtà fisica organizzata sulla base di fattori sociali ed economici, una dimensione psicologica e una categoria antropologica”. Che tradotto in modo un po’ brusco sta a significare che se viviamo nella sordida bruttezza di palazzoni costruiti con la sensibilità brianzola e approccio urbanistico scampiano, la colpa è la nostra. Di noi che eleggiamo i nostri amministratori, di noi che non sappiamo ribellarci al solo vero scandalo della nostra epoca: la grande bruttezza.

E gli architetti? Già, gli archi-tetti. Bel guaio. Se sono archi-archi, come la defunta Zaha Hadid detta anche occhi di rospo, tirano due righe su un foglio, vincono un concorso, e poi ci lasciano una roba storta che altri architetti, decisamente meno archi, dovranno ingegnerizzare, ovvero tradurre in costruzione reale. Purtroppo, dico io nella maggioranza dei casi.

Se invece di archi-tetti sono archi-interni, il guaio è infinitamente più circoscritto pur se altrettanto fastidioso. Chi come me frequenta le “mostre” (termine che detto ai piccini fa sempre l’effetto di femminile di mostro) per via dell’età e della caduta tendenziale non del saggio di profitto di marxiana memoria, bensì del visus, subisce un fenomeno fastidioso diventato tendenza.

Delle tendenze a Milano Iddio ci scampi e liberi; quando “entra in vigore”, ovvero si manifestano, hanno durate che si misurano in ere geologiche. Mai stati alla Triennale? Non ancora visitata la mostra dedica al povero Boccioni? La tendenza, o meglio: l’imperio, è il minimal. Nel senso di corpo dei caratteri e di assenza di luce. Passi se la mostra riguarda una pala di Giotto. L’economia di luce è più giustificata visto il danno arrecato dai fotoni ai pigmenti secolari. Ma i quadri, le statue del Boccioni, perché al buio? E il cartellino, la “spiega” appiccicata al muro? Perché in corpo 9 e neanche un maiuscoletto? Come mai, vista l’età media dei visitatori paganti, neppure una sediolina, un appoggio, una panchetta? Neppure per i poveri guardioni, costretti alla malattia professionale dei camerieri d’antan. Sono “istallazioni” mi vien detto, le mostre d’oggi sono come installazioni. Hanno deciso gli architetti anche il corpo 9 (o era 6?) e il buio pesto, dicono.

A proposito di guardioni da mostra o da museo, la volta del “Boccioni” incontrammo una famigliola italo-francese munita di due piccini tra i due e i quattro anni. Deliziosa la madre, maglietta simil-bretone a righe, piccolo seno alla Diana di Poitiers, musino très-chérie e terribili calzature, a conferma che sì, proprio di una transalpina si trattasse. Al braccio una piccina altrettanto deliziosa intenta a ciucciarsi una (due? tre?) caramelle voluttuosamente estratte da un’enorme sacchetto bianco. Quand’ecco inatteso l’intervento in sopracciò del guardione di turno aggredire la madre con un “signora, siamo in una mostra! (Immediato e adeguato per tono e durezza l’intervento del marito: apostrofato il guardione l’ha rimesso – in piedi – al suo posto)

Forse l’architettura è come le divise. Fateci caso, basta indossarne una per diventare subito un po’ più imbecilli. A onor del vero, il guardione di Palazzo Reale aveva solo un coso di plastica attaccato al revers. Ma forse a chi è predisposto basta e avanza.