Tra tutte le dichiarazioni sulla morte di Panella quella che più mi ha colpito è quella della candidata five star Virginia Raggi. (Adinolfi a parte, beninteso: mentre tutti, nessuno escluso, mettevano il cappelluccio sul morto, l’unico che gli ha sputato addosso è stato lui; deve avere seri problemi endocrinologi, povero caro).
Tornando alla Raggi, che è poi il tema di questa madeleine nel senso di biscottino, la giovane avvocata romana aveva dichiarato pochi giorni fa che sì, se Grillo glielo chiedesse lei si dimetterebbe. Una volta eletta sindaco, si suppone. Un inno di fedeltà alla linea persino più commovente del lettere morali del padre di Enrico in “Cuore”. Poiché una dichiarazione tira l’altra e con “Marco” come ora lo chiamano tutti, era impossibile starsene zitti. Dopo Scalfari, Salvini, Mattarella, Renzi (etc etc) anche la Raggi dice la sua rimarcando (rivendicando) la continuità e la contiguità dei five star coi radicali.
Purtroppo per la Raggi, di Giacinto Panella in arte Marco tutto si può dire: liberale, libertario, libertino, narciso irresponsabile irresponsabilmente innamorato di sé; ondivago provocatore, insopportabile parolaio etc. etc. Ma Pannella no, “ordini” dall’alto e per di più via mail non li avrebbe accettati, mai. Lui voleva conquistarle (piegarle, trasformale, riformarle) le istituzioni, mica distruggerle e poi si vedrà. Non si fa lo sciopero della fame e della sete per spaccare tutto: lo si fa perché si vuole udienza, riconoscimento, ascolto. Perché l’istituzione è un interlocutore che deve essere convinto, non distrutto.
Tutto il contrario dei five star, ai quali auguro di avere grande successo prossimamente a Roma. Come molti (tutti?) qui a Nord, vivo nei confronti di Roma un irrisolto rapporto di amore-odio. A patto di averci due spicci in tasca e un cazzo da fare, è la più bella città del mondo, non ci sono dubbi. E chi li avesse, vuol dire che non ha visto né capito nulla del mondo. Arte, aria, luce, palazzi, chiese, piazze, donne, storia, cibo: tutto a Roma è più bello, più seducente, più dolce, più folle.
Ma è anche, come diceva un altro romanizzato come Veltroni, il luogo quintessenziale dello sfascio, dell’incuria, dell’irresponsabilità. Una spiegazione tra le tante è che a Roma i romani non esistano più da secoli; dalla metà dell’Ottocento in poi la città è stata sommersa da campani, calabri, abruzzesi, laziali, siciliani, frettolosamente inurbati i quali, insieme alla sparuta burocrazia sabauda, hanno creato la città come oggi la conosciamo. L’incontro dell’aristocrazia nera e papalina con il popolo minuto, la marginalità della borghesia imprenditoriale e l’inesistenza della classe operaia (il blocco storico dello sviluppo nordico) è stato il combinato disposto di un prevedibile disastro. Il risultato è la città di oggi: meravigliosa come la più splendida delle cortigiane, sordida come la più smandrappata delle baldracche.
Invito chi pensa ch’io esageri, colpito da un raggio di sole dopo la stagione delle piogge, a prendere con regolarità un taxi alla stazione Termini chiedendo di essere trasportato a Capena. In quel tragitto ci starà tutta Roma, radio calciofile a palla, fumo, tariffe fantasma comprese, mentre dai finestrini scorrerà il paesaggio, sempre eguale e sempre diverso, della sola città al mondo che vanta tremila anni di storia urbana ininterrotta. Auguri vivissimi a Virginia e a tutti i romani loro malgrado.