Correva l’estate del ’67. L’anno in cui Israele sbaragliò in sei giorni gli eserciti di Egitto, Siria e Giordania. Quell’inizio di estate, come tutte le estati della mia adolescenza, lo trascorrevo in riva al Po in un quello che allora mi sembrava un angolo di paradiso tra campi da tennis, piscina e gite sul fiume. In quell’estate gli operosi soci della “Canottieri Casale” terminavano la costruzione di un rudimentale campo di calcio, terra letteralmente strappata al fiume. Due porte, qualche segno di gesso destinato a durare lo spazio di un mattino, e l’incredibile almeno per me entusiasmo degli energumeni seminudi che sotto il sole giaguaro combattevano sfide infinite. Campo Sinai l’avevano chiamato per via dei nugoli di polvere secca che si alzavano ad ogni (raro) refolo di vento, ad ogni scatto, tiro, percussione. E campo Sinai continuò a chiamarsi sino a che il Comune...