Una volta uscito nel sole di viale Tunisia, la sala deserta dello spettacolo delle 17 (“ma come, vai al cinema alle cinque di pomeriggio in un sabato di sole?”) resta la sensazione di un film incompleto, sospeso, in qualche modo interrotto. Con in più la rattristante sensazione di lentezza (eppure non c’è nessuna scena di troppo, niente da tagliare: è una lentezza fisiologica direi).
Di “Mia madre” di Nanni Moretti avevamo già letto tutto (?) prima ancora che il film uscisse nelle sale. Commenti positivi senza se e senza ma.
Non si può non andare a vedere un film di Nanni Moretti. Nonostante il film contenga l’ennesimo tributo (ma quando la finiranno con la menata del meta-linguaggio?) al mondo del cinema, del fare il cinema, della finzione del cinema, degli splendori e delle (molte) miserie del cinema. Nonostante nel film reciti – o meglio: provi a recitare ahinoi, ahilui – un sempre meno credibile Nanni Moretti. Rigido, gonfio, imbolsito, desolatamente poco credibile nel prestare se stesso alla parte del fratello “saggio” di Margherita.
“Mia madre” è un film morettiano, certamente. Unisce il dramma alla farsa (grazie al bravissimo Turturro, il solo che dia l’idea di cosa sia la recitazione). Ragiona sul prezzo del non detto, del non visto, del non capito, come è di rigore in un film di Nanni Moretti.
Aleggia impalpabile eppur spessa come la Nutella il senso doloroso dell’inadeguatezza, dell’incapacità, dell’impotenza, espresso da Margherita Buy che, coerentemente, anche in questo film ci propone le due sole espressioni che sa dare al suo volto: sta per piangere dal nervoso (inadeguatezza, incompletezza, impotenza, incapacità); oppure ha appena terminato di piangere (un pianto nervoso dovuto a inadeguatezza, incompletezza, impotenza, incapacità). Anche il personaggio del film si chiama Margherita, e forse non è un caso: ovviamente non può che essere una donna irrisolta, inadeguata, incompleta (come ci hanno spiegato in duemilasettecentosedici servizi, uno più “esclusivo” dell’altro, gli esegeti di Nanni Moretti) semplificando così il compito interpretativo della Buy alla quale non resta che semplicemente essere se stessa.
I soli attori in un film di comparse e di caratteristi sono Turtrurro e la Lazzarini nella parte della madre. Margherita in realtà sarebbe Nanni stesso, come rilevato nelle interviste. Inadeguato, in ritardo, stupefatto, perduto di fronte al dramma inevitabile della perdita, della morte, della fine. (Ogni perdita affettiva è, come ciascuno di noi ha dolorosamente sperimentato almeno una volta nella vita, inevitabile per definizione e senza speranza).
Un’altra delle cose che (spesso) non funzionano in questo film, sono i dialoghi. Troppo spesso non credibili, inautentici, non verosimili; in particolare quelli trai i fratelli all’ospedale. Chiunque abbia vissuto l’esperienza di un dramma prolungato condiviso con una sorella, con un fratello, intendo una presenza affettiva solida, attiva e solidale, sa bene quali sono le parole che ci si scambia in queste interminabili sciagure che durano anni e poi mesi, e poi settimane e infine giorni infiniti. Conosce gli sguardi, i toni, le pause e le paure. Sono sguardi, parole, toni, incertezze, paure sempre eguali.
Purtroppo per il film, non assomigliano a nessuno dei toni, degli sguardi, delle incertezze, delle parole che Giovanni (alias Nanni) scambia con Margherita. Giovanni/Nanni parla alla sorella perduta e confusa di fronte all’inevitabilità della perdita, in modo didascalico, pazientemente scolastico, assurdamente piatto. In una parola finto, cioè la peggior critica che si possa rivolgere ad un’opera di finzione, dove lo sforzo (o l’assenza di sforzo) consiste nel far apparire vero il falso, autentico il recitato (il sangue finto sulla scena appare più vero del vero agli spettatori in platea appunto perchè è magistralmente finto…).
Un film che i media hanno annunciato anche in forme involontariamente ridicole: Moretti – Garrone – Sorrentino, gli alfieri che – nonostante tutto! – tengono alte le sorti del paese!, le “nostre risorse” a Cannes!, la “nostra speranza”…
Bene, l’ho detto. Anche se avrei preferito leggerlo da qualche parte invece di scriverlo: vi siete per caso imbattuti ultimamente in qualcosa o qualcuno che, garbatamente per carità, si sia preso la briga di affermare che… questo libro / questo film / questa regia teatrale / questa direzione d’orchestra / questa scenografia… sono una cacata?
Nella società Gesù Bambino nella quale viviamo, nella società della finzione e della ferocia, tutti immersi sino al collo nelle acque dello Stige dell’acredine e della violenza in libertà, l’arte della critica (garbata ma circostanziata, feroce ma argomentata, crudele ma educativa, eccetera eccetera) è scomparsa.
Sono rimaste le accuse giornaliere del merdaio populista (tipo “Chi fa mammografie finanzia Veronesi”) da smentire il giorno dopo; restano le urla, gli insulti, gli sbracamenti. Ma l’esercizio della critica ciccia, sparito. Appare carsicamente in qualche fanzina digitale, dove l’invasato di turno sostiene – di norma noiosissimamente – che il Tizio è peggio di Caio e di Sempronio è meglio non parlare del tutto. Ma dai grandi media d’informazione (a proposito: esistono ancora?) ri-ciccia.
Sperando di non apparire/essere io l’invasato di turno, concludo nel solo modo sensato e ragionevole: questo è un film che non si può non vedere. E’ un film non riuscito, ma non è disonesto. Non c’è piacioneria: il dolore che affiora mi è parso autentico. Non è poco.
E’ l’opera di una persona prima ancora che un autore, anche se Nanni Moretti e Moretti Giovanni sono inevitabilmente la stessa cosa, solipsista, egoriferito, nevrotico e narciso. Ma anche, e al tempo stesso, pieno di talento, di coraggio e di ambizione.
Ogni suo film è un tentativo di raccontare storie nuove e di esplorare strade diverse; certo, filtrate dalla sua coscienza e dalla sua sensibilità, ma ogni volta nuove e intentate. E’ questo (consiste anche in questo) il valore di un autore. Niente a che vedere con la palude dei caratteristi, dei guitti che da venti, trent’anni fanno sempre lo stesso film, ripetendo all’infinito lo stesso carattere che è poi la copia di un altro (velenoso) carattere. Penso al Verdone emulo del più triste Sordi, all’infinita miseria dei cinepanettonari, alla stanchezza ripetitiva di certo cinema internazionale di genere.
Purtroppo, nel paese che puntualmente scorda ogni nefandezza – che perdona i ladri, la prostituzione intellettuale, i furbi – nel paese che va pazzo per i leccapiedi e gli zerbini, la sola cosa insopportabilmente sconcia e imperdonabile è il talento. Il coraggio. L’ambizione. Guai ad essere ambiziosi, guai a sognare il successo, la distinzione conquistata attraverso il merito!
Ecco, con tutti i suoi tic, il suo narciso e il suo innegabile talento, Nanni Moretti mi ricorda un altro bel tomo pieno di coraggio e di inventiva, virtù condite da una (sana) smisurata ambizione. Con ridente sopercheria, questo bel tomo di un giovanottino di toscana s’è messo in testa, pensate, di cambiare addirittura l’Italia. Nonostante noi.