Si dice che l’estate sia la stagione più propizia per la scialla. Un tempo si sarebbe detto per il dolce far niente (fateci caso, entrambe le espressioni sono divenute titoli di film: il cinema e la pubblicità ingoiano come piante carnivore gli altrui linguaggi). Tuttavia quando “le barche si chiamavano Rosina e Anna e io andavo al lago tre mesi da mia nonna” (cit) l’estate era la stagione delle letture. Oggi le barche le chiamano “Don Fefè” e il massimo dell’impegno sono quattro claim instagrammati. Ma poiché questo è il blog per il ceto medio immiserito, gli otto sciammannati che ostinatamente insistono a leggermi sanno che ci tocca lèggere, anche quando (soprattutto se) non di pagine leggère si tratta.
Non è questione di pesantezza. Una lettura pesante molto spesso (se non quasi sempre) è come una cottura inutilmente pesante. La cui pesantezza non dipende dalla peculiarità della ricetta, quanto dalla carenza di talento del cuoco (o della cuoca). Chi scrive pesante pensa pesante? Non ho idea. Chi ha letto l’integrale delle critiche kantiane o si è dovuto confrontare con l’estetica di Hegel, ha qualche certezza in proposito. Ma è tuttavia abbastanza indubbio che anche letture apparentemente leggère richiedano una lunga digestione. Prendiamo ad esempio le pagine apparentemente immediate e scorrevoli di Primo Levi narratore (“Il sistema periodico” o “La chiave a stella”). Per quanto immediate e scorrevoli (o forse proprio per questo) accendono nel lettore avveduto il meccanismo della riflessione involontaria: accade di pensare ad una frase, a un detto, a una considerazione, senza averne piena consapevolezza. Una sedimentazione leggera come sabbia accumulata nell’ansa del fiume che si rivela quando meno ce lo aspettiamo. (inutile dire che è esattamente ciò che con regolarità accade quando ci imbattiamo in figure umane bizzarre e singolari, in manifestazioni di tic o crampi sociali che al proustiano di stretta osservanza fanno scattare l’automatismo: ma quello, quello è come Cottard! Quella è la copia in sedicesimo della Verdurin!).
Una necessaria premessa a quella che non è una recensione: non sono in grado di recensire un lavoro complesso come “Israele. Una storia in 10 quadri” (Claudio Vercelli, Laterza) e inoltre scrivere recensioni mi annoia da morire. Chiamatelo suggerimento (consiglio, esortazione, incitamento, indicazione, monito, raccomandazione).
Perché leggerlo: 1.
Ci sono argomenti che trasformano anche le persone più riflessive e posate in tifosi da curva Sud (o Nord se preferite). Uno di questi (argomenti) tiene banco dal 1948, anno in cui fu fondato lo stato di Israele. L’unico mezzo per cercare di essere (diventare) persone riflessive e pacate, è conoscere. Se c’è un paese complesso, polimorfo e in continua trasformazione, questo è Israele. Il lavoro di Claudio Vercelli aiuta a comprendere (a tentare di) questa incredibile molteplicità in movimento.
Perché leggerlo: 2.
Ci sono argomenti che implicano lo studio di più elementi e fattori: storici, culturali, ideologici, religiosi, economici, demografici, diplomatici, politici, militari. Uno di questi è per l’appunto la storia di Israele, il suo passato, il suo presente e soprattutto il suo futuro. Domande come “che differenza corre tra lo Stato d’Israele e lo Stato degli Ebrei”, “perché Israele non ha una Costituzione scritta”, e “chi può dirsi ebreo (e perché)”. Claudio Vercelli è riuscito nell’impresa di offrire una rappresentazione chiara e comprensibile della realtà ebraico-israeliana, un fenomeno culturale prim’ancora che storico di sbalorditiva ricchezza e complessità. Inutile ricordare che il tema dell’identità ebraica e del suo futuro riguarda noi tutti?
Perché leggerlo 3.
Di norma le dediche degli autori sono un modo certo di rendersi ridicoli. Claudio Vercelli dedicando il suo lavoro a Barney sconfessa la regola. Forse zia Polly, l’icastica parente di Tom Sawyer, avrebbe affermato che un uomo che sa farsi voler bene anche dal suo cane non può essere del tutto malvagio. Buona lettura.