Spiegato bene? Una riflessione sul Post

By on Dic 6, 2021 in Comunicazione

Se dovessimo stilare la classifica dei dieci mestieri più mortali al mondo dopo la cattura di serpenti velenosi a mani nude ai primi nove posti troveremmo il mestiere dei giornali. Giornali e giornalisti, pur essendo da lunghi anni gravemente malati, non praticano altra terapia che il taglio dei costi. Lo stesso approccio adottato nella Guerra di Secessione americana quando per scansare le setticemie si amputava con la leggiadria di Jack mani di forbice. Risultato: prepensionamenti, redazioni raschiate all’osso, fallimento dei sistemi previdenziali, prodotti giornalistici sempre più modesti e grossolani. Chi manda avanti la baracca sostituendo i colleghi accompagnati all’uscita spesso è un precario di scarsa o nessuna esperienza, i cui “compensi professionali” sono concepiti secondo i dettami della gig economy.

Taglia, taglia, qualcosa resterà è un proverbio talmente idiota che neppure gli sconsiderati abitanti dell’isola di Pasqua. Così a furia di tagliare costi, eliminare servizi e annullare imprescindibili artigiani della comunicazione come i proto, i “prodotti editoriali” fanno talmente schifo che l’impresa non può che mancare tutti gli obiettivi. Che poi sono sempre e solo due: mantenere i lettori acquisiti, attrarne di nuovi. Nisba su tutta la linea. Insieme ai giornali scompaiono quelle isole di civiltà che sono (erano) le edicole, fari di luce nel buio cittadino, luoghi di aggregazione e umanità che né gli editori né tantomeno le associazioni di categoria hanno saputo (voluto?) salvare adeguando alle nuove necessità il cospicuo potenziale logistico.

Tuttavia qualcuno, qualcosa, sopravvive. La “Rivoluzione microelettronica”, come titolava il rapporto del Club di Roma nel lontanissimo 1982, ha reso possibile l’impensabile oltre che l’impossibile. Bravi imprenditori-giornalisti hanno dato vita a testate libere dai costi e dai vincoli della condizione fisica: fotolito, stampa, consegna alle edicole, ritiro dei resi. “Il Post” (https://www.ilpost.it) è tra le più felici di queste iniziative. Diretto da Luca Sofri, figlio e marito d’arte (il giornalismo in Italia è come l’industria del doppiaggio a Roma: un affare di famiglie) spicca da sempre per l’originalità dei contributi quanto per la marginalità degli stessi. Se è delizioso leggere le opinioni Francesco Cataluccio in tema di letteratura est-europea, articoli titolati “Cosa rende horror un horror?”, “L’importanza dei “secondi” negli scacchi” e suggerimenti per gli acquisti tipo “Un regalo di Natale al giorno” non sono forse l’ideale per convincere il lettore a pagare per ciò che (comunque) potrà leggere gratis.

Il tema dei ricavi (che la competentissima redazione del Post affronta settimanalmente con “Charlie”, la newsletter dedicata al mondo dell’editoria) è per i giornali l’equivalente dell’aquila di Prometeo, una sofferenza quotidiana che si cerca di lenire con i proventi della pubblicità e/o degli abbonamenti. Mentre la prima è facilmente aggirabile con un semplice blocker (ce ne sono a decine gratuiti) come fanno tutti gli addetti ai lavori, la seconda modalità rappresenta per ogni editore un sogno mistico che al confronto Xanadu te la regalano con i punti dell’Esselunga. Il risultato sono una serie continua di suppliche tra il minaccioso e il lagnosetto “Il tuo sostegno ci permetterà di continuare a fare il Post, perché ogni lettore in più è una persona che sa delle cose in più, e migliora il mondo” come se il futuro del giornalismo (e magari pure la serenità dei piccini che aspettano a casa il ritorno di mai e papi) dipendessero dai tuoi 80 euro annuali dell’abbonamento standard. Oltre alle suppliche che commuoverebbero persino Ebenezer Scrooge c’è la promessa di contributi riservati a chi paga:

Chi come me apre il Post tutte le mattine lo fa per la striscia quotidiana dei Peantus e per qualche trouvaille leggera e godibile come un cioccolatino? Molto divertente. Ma non sufficiente. Neppure a fare de Il Post non dico il terzo ma neanche il quarto giornale. Men che meno a pagamento. La redazione, gente in gamba, penso lo sappia. E il “peraltro direttore” Luca Sofri come ama definirsi, lo sa più di chiunque altro. La genesi della rassegna stampa curata dal vicedirettore Francesco Costa, uno dei migliori podcast in circolazione, ritengo nasca da questa consapevolezza. Peccato che il podcast con il giornale c’entri poco o nulla a parte la funzione di traino degli abbonamenti; potrebbe vivere perfettamente di vita propria proprio come la newsletter che lo stesso Costa iniziò a produrre anni fa per spiegare le campagne elettorali americane.

Insomma, quelli di Costa sono idee giornalistiche di qualità eccellente che dipendono dal talento, dalla voglia di sperimentare e dalla tenuta psico-fisica di un singolo professionista più che da un progetto editoriale strutturato e coerente; il giorno che Costa ebbe mal di pancia (o dovette accompagnare i figli a scuola) e fu sostituito da Sofri, la puntata del podcast fu mediocre per non dir di peggio. Stare in radio o cose equivalenti è un mestiere diverso dall’apparire in televisione e dallo scrivere nel chiuso della propria stanzetta. Ne sa qualcosa Giorgio Bocca buon’anima, strepitoso sui tasti della Lettera 32, disastroso come un sufflé ammosciato davanti alle telecamere di Cologno Monzese.

Finalmente veniamo all’ultimo in senso cronologico progetto editoriale de Il Post: una collana intitolata “Cose” (sottotitolo: “Spiegate bene”). Libri eleganti come sa fare Iperborea, con capitoli differenziati da battute di colore viola e verde dai quali emana l’inconfondibile profumo milanese – la città che amo come direbbe il Cav – abilissima nel trasformare con parole come “design”, “fashion week” e pur anco “food experience” anche la più modesta delle ideuzze. Di libri “Cose” sino ad ora ne sono stati pubblicati due. Il primo su cos’è e come si fa un libro; il secondo dedicato alla questione più complicata e controversa del momento: il genere. Poiché ho la casa piena di libri e persino di libri dedicati ai libri, ho rinunciato a leggermi i peraltro presumo interessantissimi pensieri di Concita De Gregorio, Michele Serra, Francesco Piccolo, Chiara Valerio e Giacomo Papi. Essendo invece piuttosto ignorante e pure abbastanza confuso su temi quali “le identità sessuali, le parole da usare” ho deciso di sacrificare 19 euro sull’altare della fighettosità meneghina ed ho acquistato quello che il Post definisce “una guida per saperne di più e parlarne meglio”.

Per essere una guida, lo è davvero già a partire dall’editoriale del peraltro direttore Luca Sofri intitolato “cerchiamo di capirci”. C’è se non tutto, certamente molto: il glossario dei termini (utilissimo); la “e” rovesciata che piace tanto alla signora Murgia; il contributo di Vera Gheno, linguista; le storie di transizioni; le leggi dello Stato nel caso vogliate cambiare sesso; persone e personaggi trans nel cinema e in tv; la riflessione teologica (“Dio è maschio?”); il parere di Fumettibrutti; la storia del colore rosa… e molto altro che non sto a citare per economia di lettura ma credo ci siamo capiti. Resta ora da chiedersi se “Cose, questioni di un certo genere” mantenga le promesse: se sia o meno una guida esaustiva ad un tema parecchio difficile; se le questioni in campo sono “spiegate bene” come promette il sottotitolo; e soprattutto se valga il tempo che la lettura richiede.

Purtroppo per i miei 19 euro e per il peraltro direttore de Il Post, come è possibile “spiegare bene” come stanno le cose riguardo a una materia magmatica e incandescente come l’identità sessuale se nessuna voce canta fuori dal coro? A puro titolo di esempio: manca totalmente il punto di vista critico delle femministe storiche; mancano le ragioni della signora Rowling, accusata di essere trans-fobica solo perché insiste a voler chiamare donne le creature che hanno le mestruazioni (o le hanno avute); mancano gli argomenti di studiosi come Cecilia Robustelli, ordinaria di Linguistica italiana presso l’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia, la quale – detto en passant – ritiene che “l’italiano si può rendere più inclusivo, ma le proposte per farlo devono rispettare le regole del sistema lingua, altrimenti la comunicazione non si realizza, e la lingua non funziona”;

Due indizi non fanno una prova, certo. Ma se il primo libro della collana è graziosamente inutile e quindi sottodimensionato rispetto al costo, mentre il secondo è un manifesto politico spacciato per documento informativo, qualche dubbio ti viene. O meglio, qualche certezza: fare editoria nell’era del tutto gratis e me l’ha detto mio cuggino è davvero il mestiere più pericoloso che esista al punto che i limiti del Il Post editore di libri assomigliano pericolosamente a quelli del Post giornale digitale: l’inconsistenza che condanna alla marginalità. L’essere nel migliore dei casi graziosamente inutili.

Nei giorni scorsi quel simpatico sciroccato di Giampiero Mughini ha scritto cose terribili sul Huffpost.  In sintesi: “Nessuno che non sia particolarmente esperto si azzarda a cucinare una pizza, ma le orde si avventano sulle tastiere. Sono 75mila libri l’anno in Italia e non me ne do pace”. Leggiamo pochissimo ma in compenso scriviamo e pubblichiamo tantissimo. Non sarebbe poi così grave se per l’editoria non valesse la regola teorizzata dal banchiere inglese Thomas Gresham nel XVI secolo: la moneta cattiva scaccia quella buona.

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