Ho finalmente letto “Socrate” di Hannah Arendt. Trentasette pagine di pensiero lucido e acuminato scritto nel modo sbalorditivamente semplice da chi in filosofia ha qualcosa da dire e sa come dirlo. Dal che ne consegue che la lettura si faccia complessa non a causa di astruserie metafisiche, ma in virtù della robusta consistenza del pensiero espresso.
Questo lavoro della Arendt dell’ormai lontano ’54 riguarda il conflitto fra filosofia e politica e l’invenzione della coscienza da parte di Socrate, intesa dalla studiosa tedesca come tribunale interno dell’io che si interroga e dà conto di se stesso a sé. E’ la scoperta del “due-in –uno” l’elemento fondante della riflessione socratica, ovvero il dialogo ininterrotto che gli esseri umani integri esercitano con se stessi.
Un tema che ha interessato il suo lavoro lungo l’intero arco della vita; una riflessione che non ha nulla a che fare con la filologia né con la storia della filosofia. L’interesse della Arendt è quello di ripensare la condizione umana e la politica alla luce di una sospetta complicità fra catastrofe totalitaria e la tradizione inaugurata da Platone. La banalità del male, e la responsabilità di chi è incapace del dialogo con se stesso del due-in-uno, fa inevitabilmente la sua comparsa.
La figura di Socrate diventa così attuale e sempre positiva perché aiuta a riformulare il tema della coscienza, del male, della responsabilità e del pensiero critico. Una pratica politica prima ancora che morale, che Platone secondo la Arendt abbandona e tradisce, inaugurando la metafisica come fuga dalla politica. Fuga dalla vita della polis, dei cittadini, degli uomini sempre diversi gli uni dagli altri e mai unificabili. Questa inimicizia (fra filosofia e politica) segna secondo la Arendt il destino del pensiero Occidentale. Difficile darle torto: è tremendamente impossibile sostenere che la banalità del male compiuta da uomini che consapevolmente abbandonano il pensiero critico, sia un fatto del passato che non si ripeterà più.
Un libro che, orrida copertina a parte come è tradizione di Raffaello Cortina, dimostra se ancora ce ne fosse la necessità il ruolo indispensabile e insostituibile dell’editore. Consigliato a chiunque conservi il bisogno di pensare.