Ho visto la prima puntata della serie tv “Freud” trasmessa da Netflix. Diciamo subito che il giovane Sigmund impegnato nella caccia a un serial killer in compagnia di un ispettore e una sensitiva, c’entra con quello reale come la marmellata sui garganelli. Neppure Vienna, sordida e cupa come una qualsiasi Gotham City, ha nulla a che fare con la città di Francesco Giuseppe: alla fine del secolo nella capitale dell’impero austroungarico la gaiezza festaiola si sposava mirabilmente con la più sofisticata ricerca artistica, scientifica e culturale. Netflix ci propone invece una Vienna che assomiglia terribilmente (nel senso letterale) alla Londra untuosa di nebbia e smog di Jack lo Squartatore. (Il crimine, e non c’erano dubbi in proposito, la produzione lo commette nei confronti del povero Freud, descritto come un cocainomane disposto anche alla truffa pur di sostenere le sue tesi sull’inconscio).
Ma anche se Freud e la città in cui visse sono frutto di falsificazione spudorata, non ho intenzione di perderne neppure una puntata: recitazione, scenografia, fotografia e luci sono di livello notevolissimo. Come pure i dettagli (ad esempio i volti segnati dalle cicatrici dei duelli rituali) che tuttavia ci portano nell’Austria devastata del dopoguerra narrata da Roth invece che a quella paciosamente imperiale e regia di fine ‘800.
Domanda delle cento ghinee: perché mai usare la maschera di Freud per proporre un giallo alla Conan Doyle? In assenza di risposte certe, è forse sensato pensare che le anche oggi le scoperte del Maestro di Bergasse 19 siano perturbanti al punto di risultare insostenibili; e come stiamo di nuovo imparando al tempo del Corona, l’angoscia è il sentimento di cui siamo preda quando non sappiamo dare un volto e un nome alla paura. Ma non disperiamo: in fondo dal 4 novembre 1899, data di pubblicazione dell’Interpretazione dei Sogni, sono passati solo una manciata d’anni.