Non credo esista per i giornali una locuzione efficace quanto “saltare lo squalo” lo è per le serie tv. Ai più pigri che neanche la fatica di pigiare il lik, ricordo che indica “il momento in cui qualcosa che una volta era grande e popolare raggiunge un punto di decadimento dopo il quale perde improvvisamente di qualità”. Detto fuor di garbo wikipediano, si salta lo squalo quando gli autori di una serie di successo planetario come “Happy days” terminata la benzina creativa (succede anche i migliori dopo millantamila puntate) non sanno più a che santo votarsi. La locuzione nasce giustappunto da una puntata della fortunata serie e indica “il punto di svolta verso il declino nonostante tutti i tentativi di mantenere alto e/o recuperare l’interesse degli spettatori”.
Mi è tornato in mente il salto dello squalo leggendo un articolo di Adriano Sofri sul “Foglio”, ripreso il giorno dopo da Mattia Feltri nel suo podcast “pizza surgelata”. Preciso che non sempre leggere Sofri mi colma d’entusiasmo. Sintassi creativa a parte, non condivido una virgola – giusto per fare un esempio – del suo atteggiamento nei confronti dei condannati per terrorismo che stanno serenamente invecchiando in Francia. Tuttavia di Sofri ammiro la capacità di pensiero che mi aiuta a pensare e, soprattutto, a ripensare (o a pensare meglio) le ragioni del mio dissentire; è questo il mestiere dell’intellettuale: metterti in condizione (e a volte costringerti) a dare risposta a quesiti scabrosi, difficili o più semplicemente imbarazzanti. A quelli facili ci pensa la pubblicità e gli uffici stampa. (Dote rara quella di Sofri, lo è sempre stata ma particolarmente in questi tempi di trogloditismo ideologico).
Il suo articolo pubblicato sul “Foglio” la settimana scorsa ricordava melanconicamente che i famosi “mai più” del dopoguerra – mai più guerre in Europa, mai più nazismo, mai più caccia all’ebreo – sono andati a farsi fottere; il mondo costruito nel dopoguerra, le certezze e le speranze basate su un’idea generosa quanto ingenua della storia, sta andando in frantumi, e quel ch’è peggio nessuno sembra in grado di arrestare la deriva verso l’abisso. Due cartelle di pura intelligenza che mi hanno fatto ricordare che c’è stato un tempo in cui Adriano Sofri scriveva per “Repubblica”. Mi capita spesso di riflettere sulla discesa agli inferi della marginalità del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. Il crollo di un prodotto apparentemente più solido della Corazzata Potemkin è un evento traumatico, in particolare per chi come non si è ancora ripreso dalla sparizione dell’Idrolitina del Cavalier Gazzoni; ma un conto è un ricordo d’infanzia, un altro (infinitamente più grave) è l’agonia di un prodotto editoriale che ha cambiato il modo di fare i giornali in Italia; e – al di là di ogni vis polemica – è stato un fior di quotidiano. Stavo lì a rimenarmela, quando il Mac fa plin e nella casella di posta compare “Altre/Storie”, la newsletter di Mario Calabresi che ogni settimana non riesco a leggere.
Annunciazione, annunciazione! come il bercio di Lello Arena nel teatro di Troisi, mi appare finalmente chiaro che il salto dello squalo di Repubblica fu l’avvento di Calabresi e l’immediata defenestrazione di Sofri. Per fortuna solo dal giornale e non da un palazzo della questura. Da allora, banalità dopo banalità, refuso dopo refuso, conformità conforme, il giornale ha preso la triste piega che oggi constatiamo. Il contributo di Sofri – intelligente sempre, puntuto spesso, a volte di impervia lettura per via della personalissima sintassi – sparito come lacrime nella pioggia. Tornava una rondine al nido, recita la celeberrima strofa di un celebre quanto illeggibile poeta. Insieme a lei uccisero pure il giornale che l’ospitava.