Sto vivendo un momento felice dal punto di vista professionale. Non certo per la qualità dei margini – quelli crescono meno dei capelli di Donald Trump – ma per via dei giovani (con una g sola) con i quali ho la fortuna di lavorare. Hanno la metà dei miei anni, qualcuno persino meno. Sono capaci e preparati. La loro etica del lavoro farebbe sorridere di contentezza anche il signor Weber. Sono determinati e competenti. Sono appassionati e sentimentali. E resi assolutamente cinici riguardo alla Polis e al concetto di Polis secondo Hanna Arendt (“significativo è il soffermarsi di Hannah Arendt sulla definizione aristotelica di uomo come zōon politikon, in essa è infatti presente la concezione greca della politica, intesa come bios politikos, come un vivere politico che non rappresenta una semplice dilatazione della vita privata ma un nuovo ordine d’esistenza fondato su ciò che, a parte le necessità biologiche, accomuna gli uomini: praxis – l’azione e lexis, il discorso). Insomma, non credono più a una mazza di niente.
La colpa è la nostra – e di chi se no – della generazione a cui appartengo, i padri, le madri e gli zii che hanno ampiamente e consapevolmente colluso con lo status quo, il quieto vivere e il tengo famiglia. Questo bel mondo immobile e ignavo glielo abbiamo apparecchiato noi, con il particolare contributo di una classe di ex-sessantottini di successo comodamente adagiati negli strapuntini di potere di ogni ordine e grado, ligi ad una sola regola, una sola parola d’ordine comune: cambiare mai.
Anche per questo mi ha fatto un certo effetto leggere le parole di un protagonista della politica (sì, ancora lei) per il quale ho sempre provato un’istintiva avversione già solo osservandone i tratti del viso, ascoltando il tono plumbeo del suo dire; un fastidio fisico prima ancora che politico che mi portava persino a giustificare la cattiveria dei suoi avversari che, per via dei suoi tratti fisiognomico-comportamentali, lo accostavano ai pubblici ministeri dei tragici “processi” staliniani.
Leggete cosa ha dichiarato recentemente Luciano Violante sui propri compagni di partito e in definitiva sulla sua generazione: “Quella vecchia generazione ha avuto alcuni grandi meriti, tra questi aver portato per la prima volta la sinistra al governo. E i giovani non sono privi di colpe ma hanno il tempo dalla loro parte. Un difetto dei vecchi, in politica, è pensare a se stessi come i più scaltri e quindi insostituibili. A volte lo sono effettivamente. Ma può accadere di non accorgersi che il giovane possiede quella stessa dote in misura maggiore, unita all’energia e alla disinvoltura che in genere ai vecchi mancano. I vecchi hanno la sapienza, la capacità cioè di connettere le categorie generali all’esperienza pratica. Si tratta di doti di supporto, importanti per le scelte, ma non decisive ai fini della direzione politica. I vecchi hanno memoria e storia, ma a volte si tratta di vetri appannati, che impediscono di vedere quello che accade al di fuori. In definitiva i vecchi, quando non ricoprono specifiche responsabilità, hanno due strade: tentare la leadership attraverso una competizione vera, come i tre maggiori candidati alla Casa Bianca, o riservarsi uno spazio di riflessione e di intervento, se richiesti. Devono soprattutto evitare di riproporre se stessi. Il rischio è diventare penosi.”.
Diventare penosi, terribile vero? Ora, chi mi conosce sa che nonostante le mille debolezze e i centomila vizi di forma che mi rendono intellettualmente debole, non ho mai abdicato alla mitologia della gioventù. Ho sempre ritenuto che la giovinezza, oltre a non essere una colpa, non fosse neppure un merito. Semmai uno stato, purtroppo di passaggio. Anzi, di rapido passaggio. Che la giovinezza non fosse una garanzia di nulla: non di talento, non di coraggio e neppure di ardore: come è noto, è pieno il mondo di ggiovani e gggiovanissimi già perfettamente rincoglioniti. Una regola che tuttavia nel nostro paese vale sempre meno, poiché oltre a soggiacere alle stesse sacrosante leggi cromosomico-statistiche che regolano la distribuzione gaussiana dell’imbecillità, gli anziani – la vecchia generazione come la chiama Violante – oltre alla loro quota di coglioneria aggiungono la tenacia delle cozze nel restare attaccati al loro piccolo (medio, medio-grande, grandissimo) privilegio che quasi mai hanno conquistato per titoli o per merito bensì per fedeltà e appartenenza, e non mollano botta neppure a martellate sulle mani. La qual cosa impedisce il solo fattore che in tutto il mondo genera (produce, promuove, sostiene, favorisce) il cambiamento: il primato di chi è capace, si sbatte, si aggiorna, approfondisce, studia, si fa domande perché vuole crescere e migliorare.
Quando, ormai secoli fa, fu coniato il lemma rottamazione, la quota proustiana della mia anima ebbe un sussulto: che sguaiatezza, che volgarità, ma che linguaggio da trivio Contessa! Oggi, quando è ormai passato molto tempo rispetto alla quantità dei rottami effettivamente rottamati, la parola ha assunto nella mia mente un altro significato. Evoca la strada di Capaci sconvolta dall’esplosione criminale che uccise Falcone e la sua scorta; le fotografie scattate dopo un maxi-tamponamento nella nebbia; il disastro delle nostre periferie urbane stuprate dai rifiuti civili (si fa per dire) più che da quelli industriali; il paesaggio degradato della Germania Est appena dopo la riunificazione, le fabbriche abbandonate alla ruggine nei Paesi Baschi; i cessi, i frigoriferi sventrati, i copertoni delle auto sul ciglio delle strade. I tanti rottami insomma che infesciano le nostre vite.
Dei rottami è indispensabile liberarsi, e in fretta. Da quelli della mente, le cose morte del passato che non ci lasciano vivere il presente e avvelenano il futuro, a quelli della vita sociale, quella Polis che fu e resta la più grande invenzione dell’umanità. Lo dobbiamo a noi stessi e prima ancora ai nostri sfortunati ed eroici amici giovani che si sforzano di non voler credere più a niente.