Quarant’anni dopo

By on Gen 16, 2016 in Comunicazione, Contemporaneità

Giovedì 14 gennaio “Repubblica” nel senso di giornale ha raddoppiato. L’edizione del 2016 veicolava la copia anastatica del prima pubblicata quarant’anni fa. Per molto tempo e per qualche doloroso trasloco (i miei sono sempre stati tali: non capisco come facciano gli americani che passano la vita a cambiare casa; forse è per questo che poi dànno fuori di matto coi fucili a pompa) avevo conservato con una qual certa religiosità la copia originale del primo numero del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari (applausi, applausi! la standing ovation pare sia diventata un obbligo…). Poi un giorno, preso come mi capita ogni tanto da un attacco di furore iconoclasta (immagino capiti anche a voi) che non mi fa più sopportare le immagini del passato, quello vecchio che non è ancora diventato antico, ho gettato tutto nella raccolta differenziata (distruttore sì, ma con coscienziosità sostenibile…).

Che effetto mi ha fatto questa copiuzza nera nera come un piccolo spazzacamino nella fumosa Londra di Dickens? A sentire, oggi per scritto e ieri in video sul sito, le dichiarazioni del nuovo direttore Calabresi (speriamo bene) ho avuto l’impressione di stare su di un altro pianeta, pure al lordo del fatto inevitabile che il primo editoriale del nuovo direttore (ri-speriamo bene) non può che essere un pastone condito di buone(buonissime) intenzioni. Per Calabresi (lo so, e mi sforzerò di ricordarlo: le colpe, come i meriti, dei padri non debbono cadere sui figli) leggere il giornale di 40 anni fa è come leggere quello di adesso: per stile giornalistico innovativo se non rivoluzionario, per il dialogo diretto con il lettore, per la chiarezza (la chiarezza?!?!) espositiva.

Ho riaperto il giornale d’allora. Righe e righe e righe di piombo. Un impatto visivo terribile. Testi fitti e complessi – si badi bene: come è sacrosanto che sia, i quotidiani non devono, non dovrebbero, somigliare a fumetti – che allora e per molti anni a venire resero “Repubblica” un giornale elitario, di tono alto e di (conseguente) inevitabilmente difficile lettura. Ripeto, come deve, dovrebbe essere, uno strumento di comunicazione che voglia davvero fare qualità. Perché la comunicazione, qualsiasi comunicazione, se non vuole limitarsi al puro semplice bla-bla “buongiorno-signora-le-do-due-fustini-mi lascia-il-suo-Dash?”. Per le notizie usa e getta c’è il web, twitter o WhatsApp. I giornali quotidiani di carta sono diventati (devono diventare se non vogliono sparire) quello che un tempo erano i settimanali: luoghi dove si legge il commento, l’approfondimento, la glossa, l’interpretazione. Di conseguenza, luoghi e spazi “alti”. Per conoscere, comprendere, capire, è inevitabile (e fisiologico) fare un po’ di fatica, nel senso di attenzione tanto per cominciare.

Ho riaperto il giornale di allora e 40 anni non sembrano passati affatto. La questione palestinese (la questione palestinese?!?!). La corruzione. La mafia. Il fancazzismo. La politica. Quest’ultima, oggi come allora, totalmente lontana e slegata dalla realtà della società civile (che come tutti sanno anche se fanno spesso finta di non sapere, è civile e incivile al tempo stesso). Le stesse menate, oggi come quarant’anni fa, delle varie “componenti” cattoliche di questo o quello. Gli stessi ukase, ricattini e non possumus. Esattamente come il sindacato, i sindacati, il sindacalese, tanto per parlare di un’altra delle chiese che impallano il nostro sciagurato paese mettendosi tra noi e il cambiamento, tra le persone e il bisogno di futuro.

Nel frattempo in questi quarant’anni quanto siamo cambiati noi? In meglio e in peggio. In molto peggio? Quarant’anni fa ci si scannava per l’ideologia, e non è una metafora da beccaio: per strada gli assassini rapinavano, sequestravano, sparavano. Guarda caso, ma non era un caso, sempre e solo puntando la componente autenticamente democratica e riformista di qualsiasi cosa: magistratura, sindacato, giornalismo.

Quarant’anni fa tutto sembrava (ed era) cementificato, immobile e immutabile. Sembrava impossibile pensare a modi nuovi di competere, fare impresa, innovare. E lo era impossibile. Oggi la società, che pure non è affatto liquida come pure saporiferamente continua a sostiene Zygmunt Bauman, prigioniera com’è del primato della tecnica per la tecnica, a differenza di quarant’anni fa sembra impossibile da interpretare, da suddividere in “buoni e cattivi”, conservazione e progresso.

Eppure certe distinzioni, affatto sottili, sono ancora la bussola che può aiutarci a navigare verso porti un po’ meno insicuri: l’idea di merito, di eguaglianza allo sparo di partenza, di solidarietà autentica e non pelosa (quella pelosa è finta come uno sputo di plastica: è la “raccolta dei bollini” per il concorso-premio dell’aldilà). Un’ idea della vita, un senso della vita e dello stare nel mondo, che credo valga oggi come quarant’anni fa. Forse oggi persino di più. Non resta che continuare a sperare e a dare sostanza alla speranza.