Lo so, dovrei parlare di Sanremo il luogo dove più si concentra l’essenza della comunicazione contemporanea. Purtroppo (per fortuna) non guardo Sanremo, mi limito a becchettare i pettegolezzi il giorno dopo. Chiedo quindi scusa, ma anche questo è l’ennesimo post sulla scrittura. Non sarà l’ultimo: scrivere è il mio mestiere. Per scrivere dignitosamente – anche la piccolissima scrittura per la pubblicità come quella che produco io – è indispensabile leggere pagine di qualità. Non si trae insegnamento se non da chi scrive immensamente meglio di te. Dimenticavo: “leggere cose di qualità” è equivalente al buon cibo, alle buone visioni, ai buoni ascolti. Leggere è come portare alla bocca cose buone e nutrienti. Un’esperienza sensoriale ad alta valenza erotica.
Fine della premessa.
Dopo “Perché scrivo” di J. Didion ho incontrato “L’arte del romanzo” di Milan Kundera. E’ davvero rassicurante constatare come sulla questione fondamentale dello scrivere (ovvero: ciò che conta davvero di un autore) due persone il cui percorso di formazione parrebbe agli antipodi la pensino allo stesso modo. Per entrambi lo scrittore esiste solo nell’opera. Tutto il resto – biografia, inediti, carteggi privati e non – deve essere rigorosamente dimenticato e distrutto. Esemplari a questo proposito le pagine della Didion sull’uso (abuso) degli inediti di Hemingway da parte dell’incauta (o forse avida, famelica, vorace?) vedova. Se non l’ha pubblicato quando era in vita, perché pubblicarlo dopo, quando l’autore non può più difendersi?
Didion dichiara di scrivere innanzitutto per chiarire a sé stessa cosa sta pensando e qualunque cosa scriva la si legge come se fosse un romanzo; per Kundera la scrittura è essenzialmente il romanzo, al punto da distinguere tra scrittore e romanziere. “L’arte del romanzo”, come “Un Occidente prigioniero” altro titolo pubblicato da Adelphi, consiste in un insieme di testi elaborati in periodi diversi e circostanze particolari; nonostante ciò offrono una lettura perfettamente coerente dell’idea di romanzo e, più in generale, di letteratura dell’autore cecoslovacco che rifugiatosi in Francia ha imparato a scrivere in una lingua che non era la sua. “L’arte del romanzo” è composto da interviste, scritti d’occasione e persino di un vocabolario delle parole preferite da Kundera. Nonostante ciò (oppure: grazie a ciò) diamo atto all’editore di aver messo insieme testi che si leggono con interesse e stupore crescente.
Per Kundera il romanzo è innanzitutto un’invenzione europea: la scoperta dei diversi aspetti dell’esistenza umana. Con Cervantes l’avventura; con Balzac i legami con la Storia; con Flaubert i territori sino ad allora inesplorati del quotidiano; con Tolstoj l’irrompere dell’irrazionale nelle decisioni; l’inafferrabile attimo passato con Proust; il ruolo dei miti con Thomas Mann, eccetera eccetera. Kundera mi ricorda la scrittura di certo Borges. Credo sia un complimento. Soggetto predicato complemento punto. Sicurezza estrema di sé e dei propri giudizi. Certezza di parlare ai posteri. Inappellabile: è così anche se non ti pare. Nessuna volontà (c’è pure un’intervista nella silloge) di “entrare nel merito” come si diceva ai tempi in cui era di moda anche “nel momento in cui”. Insomma, uno che ha le idee chiare il Kundera.
Eppure. Eppure il signor Kundera di cui non amo i romanzi (neppure uno) quando scrive da saggista mi fa pensare. E mi aiuta. Credo di aver capito qualcosa su Kafka leggendo dieci sue paginette scarse invece delle (illeggibili) menate dei kafkologi laureati. Nota a margine: nel caso di Kafka dubitare di aver compreso è segno di intelligenza non di finta umiltà. Poi c’è il dizionario delle parole che Kundera ama. Divertente ed esplicito: va al sodo e non ti fa perdere tempo. Di una cosa sono particolarmente grato all’esule rifugiato a Parigi, ed è quando scrive frasi liberatorie come “… ciò spiega come mai i grandi romanzi siano sempre più intelligenti dei loro autori”. Sono pensieri che hanno attraversato il cervello di ciascuno di noi almeno una volta nella vita e che molti di noi si vergognano di ammettere (pensa a quel codino e bigotto del Manzoni; pensa al povero Leopardi che muore per aver mangiato un chilo e mezzo di confetti durante l’epidemia di colera a Napoli…).
Non comprendevo la contiguità di Kundera con l’ultimo ultra-metafisico Heidegger finché non ho letto i versi del poeta ceco Jan Skácel citato da Kundera: “I poeti non inventano le poesie / la poesia è in qualche posto là dietro / è là da moltissimo tempo / il poeta non fa che scoprirla”. Straordinario che questa concezione della poesia e del poeta sia la stessa di Osip Ėmil’evič Mandel’štam nel racconto straordinario e straordinariamente doloroso che ne fa la moglie Nadezda nel memoir “Speranza contro speranza”. (Ne riparleremo. Del libro e della signora Mandel’štam). Il poeta, come il romanziere, non devono inventare: a loro il compito (il dono) di scoprire. A Mandel’štam le parole della poesia risuonavano nella mente. Gli arrivavano, lui doveva semplicemente ricordarle. In età staliniana era meglio ricordare invece di lasciare traccia scritta. Del resto, pare sapesse tutta la Commedia di Dante a memoria.
Non amo Kundera narratore. Ho invece un debito di riconoscenza con il saggista politico. Rammenta a tutti noi europei l’immeritata fortuna di nascere e di vivere dalla parte giusta al di qua del muro. Quella in cui nonostante tutto puoi pensare ciò che vuoi. E dirlo persino. Non è poco. Ma come sempre, ad averle sottomano gratis anche le cose più preziose finiscono con l’essere considerate ovvie e scontate. Gli ucraini sotto le bombe da un anno e le donne iraniane che si fanno ammazzare perché vogliono vivere come noi, potrebbero rammentarcelo se solo avessimo voglia di porci il problema. “Uno degli sbagli dell’Europa”, conclude Kundera, “E’ non aver mai capito l’arte più europea, il romanzo; nè il suo spirito, né le sue immense conoscenze e scoperte, né l’autonomia della sua storia”. Temo che oltre all’idea di romanzo l’Europa abbia smarrito anche l’idea di libertà.