Feria d’agosto 2. Ho tentato di ri-vedere “Un mercoledì da leoni” (Milius, 1978) e “Sogni d’oro” (Moretti, 1981). Il primo – a suo tempo mi aveva affascinato – mi è risultato più insopportabile delle cene di capodanno. Eppure è un racconto di formazione: melanconico addio alla giovinezza celebrato dal più inossidabile mito della cultura americana; contrariamente a ciò che molti credono non è la nuova frontiera e neppure il diventare americani, bensì l’amicizia maschile.
Riguardo al film di Moretti, del quale mi guardo bene di esprimere qualsiasi critica per il timore perdere i miei pochi e preziosissimi lettori che curo come fragole di serra, dico solo che narrava le spaventose difficoltà che il regista affronta nell’esercizio della sua professione creativa; tema che, come tutti i cinefili sanno, è inedito sino a sfiorare l’inaudito. (S’è mai visto prima di “Sogni d’oro” un film sulla fatica di fare film?)
Tuttavia l’oggetto di questa madeleine non sono i due film in sé, quanto l’impressione che producono film scritti e realizzati cinquant’anni fa. Il senso di distanza che si traduce in estraneità non dipende solo dalla lentezza. Sono i dialoghi, le posture, le reazioni dei protagonisti ancor più degli accessori e dell’abbigliamento. Davvero reagivano così ai casi della vita i ragazzi di Milius? Davvero i personaggi di Moretti ci sembravano in qualche modo verosimili (e quindi credibili) cinquant’anni fa?
Forse è un carattere proprio del cinema. Come le fragole di serra non regge l’invecchiamento. Provate a guardare “Il cielo sopra Berlino” oppure “Il settimo sigillo”. Ma anche, giusto per cambiare genere, “Il buono, il brutto, il cattivo” che pure ci piace al punto che ogni tre anni siamo disposti a rivederne qualche scena. Niente da fare, il cinema invecchia in modo intollerabile. Ciò che un tempo ci ha stregato oggi ci appare insopportabile.
Controprova e (ardita) scommessa. Prendete una cosa di quelle pericolose assai, tipo “Le affinità elettive”. Ci sono passaggi, come la metagenetica incrociata, arrischiati al punto che farebbero sganasciare dalle risate pure la più timorata delle suore Clarisse. Eppure, sono certo che fatto leggere nel modo giusto a qualche adolescente in età d’innamoramento la storia implausibile di Carlotta, il Capitano, Edoardo e Ottilia farebbe breccia (e che breccia) pure nei loro cuori. Leggiamo e rileggiamo l’”Odissea” e il “Sogno di una notte di mezza estate” come pure “Le avventure di Pinocchio”, senza perdere neppure un grammo di sospensione dell’incredulità. Continuiamo ad ascoltare i racconti di Odisseo, a commuoverci per il dramma di Orfeo, a sorridere per le scorribande di Puck: perfette “macchine narrative” che funzionano a dispetto dei millenni, dei secoli e delle distanze che separano la nostra civiltà (il nostro modo di vivere) dal loro.
Ecco la differenza. I libri, particolarmente i grandi e grandissimi, si rileggono. Ogni volta che abbiamo il coraggio e l’intelligenza di misurarci con loro, ci scopriamo mutati. Ogni rilettura è la misura della strada che abbiamo percorso, di ciò che siamo diventati. I grandi libri invece attraversano il tempo. Hanno il dono di apparire ogni volta miracolosamente contemporanei del loro lettore. Nulla è permanente fuorché la letteratura?