Ogni tanto qualcuno mi chiede come si impara a scrivere. Di solito rispondo chiedendo di quale scrittura si stia parlando, se funzionale o creativa. La prima si può apprendere, la seconda no. Tra le due corre la differenza che c’è tra gli artigiani e gli artisti. Nel migliore dei casi i primi, dopo ragionevole apprendistato, scrivono per i giornali o per la pubblicità; i secondi invece inventano le Emma Bovary, le Anna Karenina, le Duchesse di Guermantes, le Molly Bloom. Come si diventa artisti della scrittura? Come lo sono diventati i signori Flaubert, Tolstoj, Proust, Joyce. Scrivendo come pazzi dal mattino alla sera, scontenti la sera di ciò che avevano scritto al mattino. Non certo andando a scuola di scrittura. Anche perché le scuole di scrittura un tempo non esistevano. Da chi imparavano? Come Montaigne dai grandi del passato, e occasionalmente da qualche altrettanto grande contemporaneo: Flaubert dialogando con Turgenev, Maupassant con Flaubert, Joyce con Svevo. Proust con tutti e quindi con nessuno.
Con buona pace delle persone per bene – un paio dovrebbero pur esserci – che promuovono le scuole di scrittura con la medesima convinzione con cui Radio Elettra Torino vende i corsi di termoidraulica, la sola cosa insegnabile è l’arte della lettura. Manuali di riferimento: “Sei passeggiate nel bosco narrativo” e “Lector in fabula”. Saggi nei quali Umberto Eco postula il lavoro di interpretazione testuale che spetta al lettore; ovvero la letteratura intesa quale lavoro che si compie in equipe (è la quindicesima volta che li cito, mi scusino i miei 14 lettori). Solo dopo aver letto, riletto e continuato a leggere, si possono iniziare le prove di scrittura; ammesso e non concesso che la lettura e la rilettura di grandi e grandissimi non ci abbia resi convinti che il diventare un buon lettore sia infinitamente più auspicabile (per sé e per il mondo) che l’essere un modesto se non modestissimo scrittore. Chi ce la fa – chi riesce a scrivere qualcosa di degno di essere letto – sta in un rapporto di uno a qualche milione di scriventi.
Secondo il sagace Mughini ogni anno nella piccola Italia si pubblicano più di 75 mila libri. Si scrive, si pubblica e si macera a un ritmo che neanche l’acne giovanile. La domanda che dovremmo porci è per chi. Il compianto De Mauro ha più volte denunciato lo stato pietoso in cui versa l’arte della lettura: anno dopo anno le indagini confermano il dato agghiacciante: il 70% dei nostri concittadini sono analfabeti di andata o di ritorno; individui che non sono in grado di comprendere il significato di una pur breve proposizione. (In proposito, un secolo fa quello sciroccato di genio che fu Ludwig Wittgenstein scriveva: “l mondo è tutto ciò che accade. Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose. L’immagine logica dei fatti è il pensiero. Il pensiero è la proposizione munita di senso. La proposizione è una funzione di verità delle proposizioni elementari.”).
Dobbiamo quindi rassegnarci all’idea che la stragrande maggioranza di coloro che incontriamo nel corso di una giornata – probabilmente coloro che ostano gli accessi della metro piazzandosi davanti alle porte anche se non devono scendere; probabilmente quelli che bradipano alle casse ostinandosi a pagare con le monetine; probabilmente quelli che bloccano il flusso al semaforo perché stanno alla guida con il telefono in mano – siano analfabeti metropolitani. Quelli che restano – pare siano cinque o sei milioni gli italiani che comprano (e si suppone leggono) libri e giornali, vanno a teatro, alle mostre d’arte e ai concerti di musica colta – hanno il dovere morale di leggere anche per i rimanenti cinquantacinque, infanti e centenari compresi; soprattutto di resistere alla tentazione della scrittura.
Un dovere politico, come direbbe Hanna Arendt che di banalità e addiction se ne intendeva parecchio. Quindi, che fare caro signor Ravera? Tutti condannati a leggere le 1463 pagine di “Guerra e pace”, a spaccarsi la capa sull’intraducibile e comunque illeggibile “Veglia per il signor Finnegans”? Sbagliato. La lettura (come la musica, le arti visive, l’architettura, l’enogastronomia e la sessualità libera e consapevole) è innanzitutto un piacere. La domanda (fate voi se delle cento ghinee o delle equivalenti cento pistole) è dunque la seguente: esistono prodotti letterari che siano al tempo stesso godibili come una fetta di cotechino e sostanziosi come un sonetto di Petrarca?
Per molto tempo (per troppo tempo) popolare ha fatto rima con volgare. Poi per nostra fortuna Eco (sempre lui) in “Apocalittici e integrati” ha spiegato la relazione che corre tra cultura “alta” e “bassa”, liberando una volta per tutte il feuilleton e il fumetto dallo stigma della marginalità. Sempre Eco ci ha insegnato quello che sapevamo già, ma che tra un Grillparzer e l’altro ci vergognavamo ad affermare nelle aule dell’Università: “I tre moschettieri” come pure “Il conte di Montecristo” sono capolavori assoluti. Basta poi attraversare la Manica e incontreremo quel genio matricolato di Dickens, e pure il signor Józef Teodor Konrad Korzeniowski, il marinaio polacco che volle farsi scrittore in lingua inglese.
Cose note, direte giustamente. Infatti la “madeleine” di oggi non è dedicata a loro, bensì a un piccolo libro poco conosciuto scritto da un autore di strepitosa abilità che più di qualunque altro ha pagato il (salato) prezzo della trasposizione cinematografica. Sto parlando di Joseph Rudyard Kipling, nato a Bombay nel 1865 e morto a Londra nel 1936, giusto in tempo per non assistere alla fine ingloriosa dell’Impero britannico.
Alzi la mano chi non ha visto in compagnia di figli e nipoti il “Libro della jungla” disneyano. Il cartone pur non essendo brutto è l’ennesima conferma della legge degli inversi: libro modesto, splendido film e viceversa. Così, è stato inevitabile che Kipling – l’autore di “Kim” e “Capitani coraggiosi”- finisse relegato nell’angusto angoletto assegnato agli scrittori per l’infanzia (come se esistesse una letteratura per l’infanzia!) e si scordasse la sua straordinaria capacità di creare (e ri-creare) mondi. La stessa che rende la Rowling figura unica nel modesto panorama della letteratura contemporanea. Non solo i celeberrimi animali parlanti della jungla indiana, ma anche gli elfi, le fate e i folletti delle antiche leggende inglesi che piacevano al Shakespeare del “Sogno di una notte di mezz’estate” e personaggi come Puck il folletto che ritroviamo nelle avventure di Corto Maltese.
“Parola di cane” è il racconto in prima persona di un Aberdeen Terrier. Diversamente dagli animali umanizzati del ciclo della jungla, il terrier del racconto pensa, si comporta e parla come un vero cane, virtuosismo reso possibile dal talento di Kipling e dal fatto che fosse il felice proprietario di un terrier. Il risultato è una scrittura semplice dotata di irresistibile humor: il sogno irrealizzabile di molti di noi (me compreso). Se per campare dovessi fare l’insegnante in una scuola di scrittura creativa (il corsivo è d’obbligo) penso proprio che riporrei quel disgraziato del giovane Holden nel palchetto della libreria dedicato ai grandi classici abusati, e inizierei le lezioni da questo piccolo racconto. Ma poiché “mia madre crede suoni il piano in un bordello” come diceva quel collega che ha fatto un sacco di soldi con la faccia di Mitterand, il mio mestiere è un altro e per il momento non corro il pericolo.
La foto che correda questa madeleine ritrae Madeleine (per gli amici Maddie) la cucciola di Lakeland Terrier con la quale ho la fortuna di condividere le mie giornate.