Pare che, addetti ai lavori a parte, la notizia interessi solo quelli come me che vivrebbero di pane e giornali. (Il pane magari guarnito da un po’ di paté; i giornali pensati bene e scritti meglio). La notizia è che il Gruppo Espresso-La Repubblica si sposa con la Stampa e il Secolo XIX. Nasce un agglomerato editoriale le cui vendite rappresentano il del 55% del mercato. Un mercato sempre più asfittico: dai 6 milioni di copie vendute sino a qualche anno fa, si è arrivati ai 3 milioni attuali di cui il 20-25% pare sia rappresentato da abbonamenti digitali.
Pare, poiché nel mondo dell’editoria tirature, diffusioni, vendite e rese sono dati affidabili quanto l’onorabilità delle matrone romane nell’età dell’Impero. Unirsi è tuttavia una scelta sensata e soprattutto inevitabile: i costi di un’impresa giornalistica sono divenuti insostenibili stante la costante moria di lettori; e la transizione – ahi Velasquez dove porti la mia vita? – verso il digitale è più complessa del passaggio del Mar Rosso verso la Terra Promessa. Manca un Mosè a far da guida. Manca soprattutto il costume di considerare Internet un posto dove pagare il biglietto dovrebbe essere non solo un obbligo ma pure una garanzia.
Già, ma pagare per cosa? Gli italianuzzi nostri pare non siano granché interessati a farsi un’opinione (vera, verosimile, falsa o falsissima) su ciò che li circonda. Farsi un’opinione implica un minimo di studio, di verifica delle fonti, e prim’ancora di ricerca delle stesse; sicché per non fare fatica si preferisce farsi fare un’opinione; oppure ricorrere ai pre-giudizi che sono già pronti come i sofficini Findus, e quando non funzionano basta cambiarli senza troppe menate.
Gli uomini di punta del nuovo agglomerato editoriale hanno giurato che l’indipendenza delle testate sarà salvaguardata e garantita come la verginità di Maria, tema notoriamente discusso per secoli. Faccio un atto di fede e provo a crederci. Ci sono un sacco di precedenti su come ammazzare un brand dopo averlo acquisito: Fiat con Lancia, Autobianchi e a seguire pure Alfa, è un esempio di scuola in tal senso, al contrario di quanto ha saputo fare il Gruppo VW. Se la differenziazione è la vita di un brand (di auto, detersivi e pure di caffè) immaginiamoci quanto conti l’identità in un prodotto come il giornale che altro non è se non la sommatoria organizzata di molte individualità (la redazione, gli inviati, le firme) unificate da una linea editoriale e culturale.
La prova del nove – sì, mi piace vincere facile – l’avremo dall’ultima turcheria, il commissariamento del quotidiano d’opposizione Zaman. Quanta credibilità e quanta reputazione (e di conseguenza quante copie vendute) riscuoterà il “nuovo” Zaman dopo il licenziamento in massa della redazione sostituita dai pennivendoli di Erdogan? Quante copie venderebbero Stampa e Repubblica se perdessero la loro identità, se diventassero un pastone uniforme?
I giornali sono come gli amori: c’è bisogno di tempo per costruire un legame, basta un attimo per spezzarlo per sempre.
Spread the word (detto anche più semplicemente “passaparola”)
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