Mio padre è nato nel ‘13. Giusto in tempo per non perdersi il primo conflitto mondiale e la Spagnola. Poi gli sono toccati vent’anni di regime e la guerra nazifascista col suo corollario di bombardamenti, sfollamenti, fame e borsa nera. Ometto persecuzioni e rastrellamenti perché a lui come alla maggioranza degli italiani questo strazio fu risparmiato. Penso alla sua generazione, confronto le loro vite con le nostre di boomer alle prese con la pandemia. E mi domando se davvero i nati tra il ’46 e il ’64 siano la generazione più fortunata.
Sono nato nel ’52. Nonostante le campagne vaccinali la polio continuava ancora a colpire come testimoniava l’andatura sghemba di un compagno alle medie. Tutte le sere la televisione ci ricordava che eravamo in guerra. Non era calda, tuttavia in cielo, in mare e sottoterra si coltivava alacremente l’efficacia della Bomba. Località come Luang Prabang, Hué, Hanoi e il delta del Mekong divennero popolari come Camogli e Bellaria Igea Marina.
A conferma che il Muro di Berlino non era un errore tattico ma una strategia, nell’agosto del ’68 i sovietici invasero la Cecoslovacchia, premessa dello schieramento che seguì di lì a poco, i missili a testata nucleare SS 20 puntati contro l’Europa. Giusto il tempo di assaggiare la crisi petrolifera, le domeniche a piedi e le delizie dell’inflazione due cifre, e l’Italia delle stragi entrava in quelli che vennero chiamati anni di piombo: bombe, rapimenti, pestaggi sotto casa, ammazzamenti. I morti e i feriti si contarono a centinaia. Il culmine fu raggiunto con l’omicidio Moro nel maggio del ’78.
Trascorsi pochi anni, giusto il tempo di assaggiare una sorta di normalità per quanto volgare, alla fine di un aprile più caldo del solito comparve la Nube. Vietato mangiare verdure a foglia larga, niente latte ai bambini, all’aria aperta il minor tempo possibile. Mancò poco che anche la respirazione fosse sconsigliata. Quando il 26 aprile la centrale ucraina scoppiò l’ex corta che mi somiglia non aveva ancora un anno. Era sabato e l’avevo portata a pascolare al Forlanini, il parco Sud dei milanesi.
Il resto – l’equivoco di “Mani pulite”, i vent’anni arcoriani (peraltro amatissimi dal popolo italiano) l’ascensore sociale mai funzionante, l’ostinata crescita zero, i cervelli in fuga dal Sud e dal paese tutto – è cronaca. Alla tradizionale prevalenza del cretino si aggiunse con ineccepibile coerenza l’estasi dell’ignoranza.
Cosa direbbe mio padre se fosse ancora vivo non ho idea. Forse che questa è la guerra che ci tocca. Non credo avrebbe avuto timori ad usare una parola che pure indigna più di un’anima bella. Eppure come chiamare una cosa che fa più di centomila morti in un anno senza contare l’indotto, ovvero i morti che verranno a causa di “ritardata sanità”? A chi attribuire l’ecatombe dei più esposti e dei più fragili, il milione in più di nuovi poveri, l’agonia delle micro imprese, i futuri disoccupati, il crollo del pil e la perdita di un anno scolastico in un paese già ignorante di suo? (sommessamente ricordo che la Treccani elenca decine di usi estensivi di questo lemma: da guerra dei nervi a guerra doganale, guerra del vino e del merluzzo etc. etc. Ma si sa che le anime belle di cui abbonda il nostro paese adorano atteggiarsi con la piuma rossa della maestrina)
Abbiamo cantato sui balconi e nei cortili. Abbiamo sventolato tricolori e scandito slogan infantili e ottimistici come è doveroso che uno slogan sia (mai sentito nessuno strillare “Perde-remo mala-mente! Non c’è speranza, non c’è ristoro moriremo senza decoro!”).
Abbiamo finto di essere uniti come deve fingere di esserlo un paese nei momenti di calamità nazionale (in guerra, appunto). Decorato medici e infermieri salvo scordaci di loro quando pareva che gli eroi non servissero più. Lucrato (eufemismo) su forniture ospedaliere come da tradizione nazionale. Progettato inutili e costosi decori a forma di fiore nel pieno rispetto della nostra indole che predilige l’apparire all’essere. Prodotto ammennicoli con le rotelle invece di donare un pc ad ogni famiglia in difficoltà. Comunicato migliaia di dispacci, previsioni, ordinanze, decreti, inviti, suggerimenti, consigli e financo ordini, categoria quest’ultima ampiamente disattesa in un paese come il nostro.
Non solo: abbiamo anche scoperto che il famoso “Titolo V” (“I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”) si traduce in una colossale puttanata che legittima ciascun Masaniello e Misirizzi a fare il cavolo che vuole.
Ci siamo ubriacati coi medici in tivù, purtroppo non quelli abili e consolatori di E-R. Infine, giunti a un secondo esatto del definitivo game over, ci siamo concessi il lusso di un governo chiamato “di unità nazionale” solo perché è mancato il coraggio di definirlo per quello che (per nostra fortuna) invece è: il governo del migliore. Che in termini calcistici equivale a dire “diamo la palla a Maradona che poi qualcosa succede”.
And so what? chiederebbero i pragmatici americani. Credo sia doveroso prim’ancora che saggio riconoscere che nonostante tutto noi boomer siamo stati parecchio fortunati. Scansate le seduzioni della P38, fatto orecchie di mercante al canto dell’eroina, superati Scilla e Cariddi dell’Aids, abbiamo viaggiato, sperimentato, curiosato e sfidato; non ci hanno sparato, non siamo finiti in galera e neppure a San Pa e, nella maggioranza dei casi, abbiamo persino ricevuto un’educazione di prim’ordine.
Adesso siamo alla lotteria dei vaccini (quello che ci inietteranno – Pippo, Pluto o Paperino – andrà benissimo: in guerra non si sta a sottilizzare sul colore delle razioni K). Il pudore impone quindi di non fare menate: niente lagne per la libertà, il tempo e i giochi perduti. Solo chi ha perso il lavoro, chi vive coi bambini in due stanze, chi non ha progetti né prospettive, chi sta in un letto d’ospedale ha il diritto di alzare la voce.