Adesso che un po’ di polvere si è depositata sull’affaire Pansa mi è venuta voglia di parlare del vero scandalo che la storia del povero Pansa sottende. Lo stimolo mi è venuto leggendo Luca Tondelli (https://leonardo.blogspot.com/) sull’età media degli opinionisti di casa nostra e sul perché i giovani (i ggiovani) non leggano i giornali scritti e riscritti dai loro nonni.
Lasciamo quindi in pace il povero Pansa e i suoi demoni che hanno trasformato l’allievo di Galante Garrone, la sopraffina scuola di pensiero Giustizia e Libertà, in un alien pieno di rancore: la mamma gli ha voluto poco bene, la maestra d’asilo l’ha trascurato, oppure è stato Eugenio (Scalfari) a negargli il giusto affetto? Sia quel che sia, Pansa è diventato un polifemo da 400.000 copie a botta in un paese, il nostro, dove solo 5 milioni di persone su 60 acquistano libri che poi forse leggeranno; e sono sempre quegli stessi 5 milioni su 60 che vanno a teatro e ai concerti di musica colta; e sono ancora loro coloro che comprano (compravano) quotidiani e periodici.
Pansa, ecco il suo daimon di bimbo trascurato trasformarsi in genio, ha dato voce ad un pubblico di reduci. Anziani e non resi afoni dalla mancanza di un brogliaccio narrativo, una fiction come si dice oggi, che vivaddio riscrivesse la storia ridistribuendo colpe, crimini e responsabilità. L’equivalente di chi volendo rivedere “I Tre Moschettieri” condannasse D’Artagnan e i suoi amici in luogo di Milady. Oppure accusasse Primo Levi di aver forsennatamente bussato ai cancelli di Auschwitz gridando di volere entrare dopo essersi appiccicato la stella gialla al petto.
Ma non è questo lo scandalo, ammesso che sia scandaloso vendere 400.000 copie di letteratura d’evasione a botta. Lo scandalo a me pare stia nel desiderio (la smania, la voluttà). che i giornalisti di casa nostra hanno di scrivere di Storia anziché di storie. Fateci caso, da Montanelli in giù è una tentazione irresistibile. Il guaio è che se il mestiere di cronista pretende scarpe robuste e amor di marciapiede, lo storico lo riconosci dal culo di pietra, dallo stomaco di ferro e dalla vescica di caucciù, complementi indispensabili per sudare ore e ore su carte polverose e noiosissime negli archivi e nelle biblioteche. Certo, poi ci vuole anche talento; ma quello come sempre viene dopo.
Lo storico lo riconosci dal metodo e dalle fonti. Da come organizza i fatti prima (durante e dopo) il formarsi di una tesi, un’opinione, un punto di vista. Potrà essere di formazione radicale, come Hobsbawm, oppure radicalmente liberale come Raymond Aron; fondatore di una scuola come Marc Bloch e Lucien Febvre, oppure transfuga da una corrente di pensiero ad un’altra come accadde a Renzo De Felice, tra i più importanti studiosi del fascismo. Quello dello storico è un lavoro il cui valore si misura sull’arco dei decenni, come il Barolo, il Sassicaia o l’Amarone. È un mestiere per vecchi che devono aver passato la gioventù a studiare. Il cronista, l’inviato, che invecchiando diventano opinionisti (e spesso di valore) fanno un altro mestiere. Indispensabile. Utile. Qualche volta affascinante, qualche altra rischioso. Come accadde sistematicamente al povero Tiziano Terzani, l’inviato specialissimo che puntualmente s’innamorava di movimenti e condottieri da cui poi doveva prendere rapida distanza. Per colpa dei fatti, maledetti loro. Per quanto ci si sforzi di darne libera lettura, sono coriacei come il banco al Casinò. A gioco lungo vincono sempre loro.
* Maurizio Ferraris “Spettri di Nietzsche” Guanda