Terminato di leggere “Eppure non sono un pessimista” di Enrico Filippini. Operazione editoriale di Castelvecchi che mette insieme due conversazioni dell’autore con Jurgen Habermas e un saggio di Giacomo Marramao sul tema del Moderno.
Le conversazioni con il filosofo tedesco risalgono al 1976 e al 1988, anno della morte di Filippini. Sono passati molti anni, apparentemente un’enormità, dal tempo in cui Habermas si interroga sulla “distruzione della comunicazione” in una società in cui gli “spazi vitali”, la Lebenswelt, si riducono a causa dell’invadenza degli apparati di controllo sociale. Eppure leggendo il testo di Filippini con il brontolio delle cannonate russe e il frastuono dei kalašnikov Jihadisti nelle orecchie, il tempo sembra dare ragione alla (strampalata) teoria di Nietzsche sull’eterno ritorno; alla distruzione habermasiana della comunicazione degli anni ’70 e ’80 fa oggi riscontro il grado zero della comunicazione fra gli uomini causa l’impazzamento della ragione, come lucidamente avverte nel titolo Filippini.
Fa sorridere (ma non tanto; anzi affatto) leggere nelle conversazioni l’eco della durissima polemica sostenuta da Habermas contro gli storici revisionisti tedeschi (Nolte, Fest, Hildebrand e compagnia cantante) e i loro sforzi tendenti a mettere sullo stesso piano il totalitarismo socialista e quello hitleriano con lo scopo implicito di mitigare l’orrore nazifascista.
Fa sorridere (ma non tanto; anzi affatto) ri-scoprire che il post-modernismo anche allora, 1976, andava a braccetto con il neo-conservatorismo per giungere insieme alla conclusione che tutto è uguale, tutto si tiene e niente si distingue.
La battaglia, oggi come allora, è tra chi vuol seppellire l’Illuminismo e le conquiste del Moderno e chi, faticosissimamente, cerca di dare senso alla weberiana razionalità occidentale.
Nota sulla razionalità e l’Occidente
“Secondo Max Weber, l’Occidente ha avuto uno sviluppo diverso rispetto a quello di ogni altra cultura al mondo: ciò in virtù del fatto che soltanto in Occidente il processo di razionalizzazione è progredito a tal punto da investire globalmente i sistemi di credenze, le strutture familiari, gli ordinamenti giuridici, politici ed economici, la scienza e addirittura le attività artistiche. Anche altrove la razionalizzazione ha avuto la sua importanza, ma mai come in Occidente: infatti – nota Weber – nei Paesi non occidentali essa non si è mai spinta ad inglobare ogni credenza e perfino l’attività artistica. Weber si interroga dunque su questo “sviluppo singolare” (Sonderentwicklung) e addiviene alla conclusione che esso è dovuto precipuamente al fatto che solamente in Occidente si è sviluppato un sistema di credenze che, ponendo il sacro (e quindi la divinità) su un piano assolutamente trascendentale rispetto al mondo terreno, ha consentito di guardare alla realtà naturale e umana come ad una realtà oggettiva, priva di significati magici e, pertanto, manipolabile – senza restrizioni – dalla volontà umana. L’ordine sociale, liberato dalla sacralità della tradizione, ha potuto così subire un processo di radicale trasformazione nella direzione della modernità e, all’interno di tal processo, un ruolo di primaria importanza è stato svolto dalla scienza (qui si innesta poi la distinzione weberiana “tra scienze naturali”, le quali spiegano, e “scienze sociali”, le quali, oltre a spiegare, comprendono). Il processo di razionalizzazione comporta una sempre crescente ed estesa razionalizzazione del mondo e dell’uomo che lo abita: l’uomo occidentale è, dunque, un uomo razionale, non già nel senso che tutto ciò che fa è razionale, ma piuttosto nel senso che egli può agire razionalmente e in ciò risiede la differenza tra uomo e natura: in natura ogni cosa pare avere un senso, così la pioggia ha senso se riferita al raccolto, ecc; ma se consideriamo in maniera a sé stante ogni singolo fenomeno naturale, ci accorgiamo che ciascuno di essi, di per sé, non ha senso (che senso ha, di per sé, la pioggia?); diverso è il caso delle azioni umane, che anche di per sé prese hanno un senso.”