A cosa serve la cultura antica? A questa e ad altre domande risponde Maurizio Bettini nel suo “Elogio del politeismo. Quello che possiamo imparare oggi dalle religioni antiche”. Il Mulino editore.
La risposta che il classicista e antropologo propone mi pare limpidissima: “La cultura antica non fornisce solo materia di studio… per gli specialisti, ma in molti casi fornisce ancora una fonte di ispirazione, una fonte viva, per la produzione culturale contemporanea”. “Così come è avvenuto nel passato – dal Medioevo al Rinascimento, dal secolo dei Lumi al Novecento, la produzione culturale greca e romana continua transitare anche attraverso la contemporaneità e a fornire alimento per la cultura dell’oggi”.
Certo, la “cultura di oggi” come ben sappiamo è fortemente messa in discussione da un’ignoranza vorace e diffusa, avvelenata com’è da vecchie e nuove barbarie: l’intolleranza occidentale per la diversità da una parte, la ferocia assassina dei terrorismo islamista dall’altra. Mi guardo bene ovviamente dall’equipararle, essendo il primo – l’intollerante indifferenza occidentale – un crimine incomparabile con il secondo: noi rifiutiamo di comprendere (e quindi rifiutiamo tout court) mentre gli altri oltre a non voler comprendere, tagliano le gole.
Per questa ragione leggere questo piccolo saggio è illuminante, oltreché divertente: le storie dei piccoli dèi quotidiani dei romani non solo sono squisite, ma rivelano in modo plateale la lunga trasformazione che le divinità pagane hanno compito nei secoli e i legame profondo che c’è tra loro e il bisogno di venerare la miriade di santi e beati della tradizione cristiana.
La faccio breve e giungo al nocciolo. Bettini sostiene che nel mondo antico (schiavista, brutto e cattivo per definizione) le guerre venivamo mosse per il potere non per la verità. Solo le guerre di religione si combattono per imporre la propria verità, secondo il paradigma il mio Dio è quello vero, il tuo è falso, quindi ti ammazzo. Pratica ben esperita per secoli nel mondo cristiano, quando le eresie (catari, valdesi, dolciniani) venivano affrontate con il motto “ammazzateli tutti! Dio riconoscerà i suoi”.
Un po’ d’acqua è passata sotto i ponti. Certo, ci sono ancora i cappellani militari in ogni esercito che si rispetti, e c’è ancora qualcuno convinto che si possa ammazzare nel nome di Dio (che per definizione è con noi e contro di loro). Ma mi pare indubbio che una calmata noi europei ce la siamo finalmente data.
Adesso si risvegliano altri demoni, altri ammazzamenti da parte di sette islamiste in nome dell’unico vero Dio. E’ facile riconoscere la follia, umano ritrarsi per il ribrezzo, civile organizzare una risposta innanzitutto politica prima ancora che militare. Eppure, per duemila anni il monoteismo ci ha abituati a ritenere che Dio – il mio, il tuo, il loro – non possa che essere “unico ed esclusivo”.
Il politeismo del mondo antico contemplava invece la possibilità di far corrispondere (e quindi convivere) fra loro dèi e dèe appartenenti a culture diverse. Una disposizione culturale che ha impedito le guerre di religione. Se si parte dal presupposto che gli dèi sono molti, è più difficile sostenere che quelli degli altri sono falsi o demoni.
Dobbiamo quindi professare il politeismo, col rischio d’intozzare le nostre già piccole case di Lari e Penati? Diciamo che forse basterebbe adottare un diverso angolo di visuale capace di trarci fuori dall’assolutismo e dall’intolleranza.
Senza scordare che i non credenti – minacciati di morte da ogni religione monoteista che si rispetti – sono i soli che di guerre di religione non ne abbiano mai fatte.