Mutandine di chiffon

By on Ago 25, 2022 in Contemporaneità

Come i luoghi da cui ti sei sempre tenuto alla larga – tipo Gabicce Mare piuttosto che Busto Arsizio – ci sono libri che mai avresti pensato di acquistare, di leggere e soprattutto apprezzare. Gli esperti di marketing, beati loro, lo chiamerebbero il funnel del lettore. Poi accade che un amico di faccialibro, uno di quelli che apprezzi particolarmente per sagace spregiudicatezza, pubblichi sulla sua bacheca il capitolo di un libro dedicato ad una figura, per altro assai controversa, che in qualche modo ti interessa. Ho così avuto modo di gustare il ritratto di Piero Citati apparecchiato con perfida dolcezza da Carlo Fruttero in “Mutandine di chiffon” (Oscar Mondadori). Svegliare Bezos nel cuore della notte e il giorno dopo rigirare il libretto tra le mani è stato tutt’uno.

“Mutandine di chiffon” fa parte di quelle iniziative un tempo largamente promosse dagli editori. Consiste nel mettere insieme pezzi d’occasione sulla scorta di un comun denominatore. Ingrediente indispensabile è la quantità degli scritti da selezionare affinché la selezione corrisponda ad un minimo di logica. Nel caso Fruttero il fil rouge – il francese è d’obbligo trattandosi di un autore che ha amato la Francia – è la memoria. Confesso che ho trovato insignificanti per non dire banali i ricordi dell’infanzia di Fruttero. A mio avviso il succo delle “Mutandine” sta nella rievocazione dell’atmosfera culturale negli anni ’50 e nei ritratti di alcuni dei protagonisti di quella stagione: da non perdere quelli dedicati agli abitanti di “casa Einaudi”.

Non sono mai stato seguace del duo Fruttero-Lucentini. Non sono un lettore di gialli e non ho mai acquistato neppure un volumetto della serie “Urania”. Il loro elegante, elegantissimo, distacco dalla volgarità delle cose del mondo (leggi: impegno civile e politico) se da un lato li ha protetti dai birignao e pure dalle scempiaggini delle conventicole letterarie, dall’altro rischia di far apparire il loro disincanto l’ennesima variante del qualunquismo italico. C’è però un “tuttavia”. Anzi, più d’uno. Leggere delle loro vicende, del loro modo di intendere il lavoro e l’amicizia, rende perfettamente cosa sia la piemontesità e in particolare la torinesità (Franco Lucentini nasce a Roma, ma come lui stesso avrebbe potuto confermare, di romano aveva meno di nulla). Rigore, cultura del lavoro, rifiuto dell’ostentazione, discrezione che si spinge sino al punto di divenire riserbo. Giusto per capirci, interpretano la torinesità al 100% persone come Adriano Olivetti, Primo Levi, Piero Angela e prima di loro i protagonisti della grande stagione dei Mila, dei Galante Garrone, dei Bobbio. Ma anche di figure come quella di Gaetano Scirea che torinese a tutti gli effetti lo è divenuto in età adulta.

Sento già qualche amico rivendicare il primato di Milano. Corro ai ripari calando un carico da undici. Così si esprime Primo Levi, torinese doc, forse il più grande degli scrittori italiani contemporanei: “Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono. Questa sconfinata regione, la regione del rusco, del boulot, del job, insomma del lavoro quotidiano, è meno nota dell’Antartide, e per un triste e misterioso fenomeno avviene che ne parlano di più, e con più clamore, proprio coloro che meno l’hanno percorsa. Per esaltare il lavoro, nelle cerimonie ufficiali viene mobilitata una retorica insidiosa, cinicamente fondata sulla considerazione che un elogio o una medaglia costano molto meno di un aumento di paga e rendono di più; però esiste anche una retorica di segno opposto, non cinica ma profondamente stupida, che tende a denigrarlo, a dipingerlo vile, come se del lavoro, proprio od altrui, si potesse fare a meno, non solo in Utopia ma oggi e qui: come se chi sa lavorare fosse per definizione un servo, e come se, per converso, chi lavorare non sa, o sa male, o non vuole, fosse per ciò stesso un uomo libero.”.

Con buona pace dei deliri neoborboniche di chi a metà strada tra favolistica e negazionismo s’ingegna a stravolgere Risorgimento, la torinesità avrebbe dovuto contribuire in modo consistente alla formazione di quel “carattere per gli italiani” che dai tempi del “Discorso” di Giacomo Leopardi (scritto nel lontanissimo 1824!) stiamo ancora cercando. Ma evidentemente qualcosa è andato storto.

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