Motus

By on Mag 27, 2022 in Contemporaneità

Le cronache raccontano che i rossoneri sono scesi in campo schiumando. Anche se bastava un pareggio, pare si siano dati una calmata solo sul tre a zero. Questione di motivazione, dice chi si intende di sport. Anche l’inattesa resistenza dell’esercito ucraino pare dipenda dalla motivazione, così decretano all’unisono i commentatori sul campo, una volta tanto in accordo con quelli da salotto e divano.

Motivazione è un lemma derivato dall’inglese motivation a sua volta preso in prestito dal latino motus. Parrebbe una povera parola ma se date un’occhiata al dizionario latino-italiano vi piomba addosso una svalangata di significati. Tuttavia, anche restando nel comune ambito semantico le sorprese non sono poche.

A quanto pare era estremamente motivato anche Aleksej Grigór’evič Stachánov quando, il 31 agosto 1935, stabilì il primo dei suoi record di produttività estraendo 102 tonnellate di carbone in 5 ore e 45 minuti. Ironia della sorte, le miniere di carbone che lo resero celebre sino al punto di diventare sinonimo di lavoratore sovietico modello si trovano nel bacino carbonifero del Donec in territorio ucraino.

E che dire del famoso autore americano di cui non ricordo il nome. Leggenda vuole abbia decorato le pareti della stanza con le lettere di rifiuto degli editori prima di riuscire ad essere finalmente pubblicato; per non parlare del povero Herman Melville, scrittore in disgrazia costretto a fare il doganiere per campare (un lavoro da artisti quello alle dogane?). “Moby Dick o la balena”, il suo capolavoro, capolavoro della letteratura americana, conobbe la fama solo nel 1921.

Mi domando se le motivazioni degli artisti – la follia di Michelangelo che già anziano spende quattro anni di vita per affrescare più di 5 mila metri quadri della Cappella Sistina – contino davvero; se la determinazione che li costringe a sottoporsi a fatiche mostruose sia libera e consapevole. Molti di coloro che scrivono (dipingono, suonano, scolpiscono e persino performano) forse non potrebbero fare altrimenti, prigionieri di nevrosi combinatorie alle quali noi comuni mortali siamo in ogni caso infinitamente debitori.

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Senza dubbio è la motivazione che ha spinto la signora Segre, senza alcun dubbio la più nobile di tutte le nomine senatoriali, a chiedere aiuto alla campionessa mondiale di orientamento al successo Chiara Ferragni: è l’indifferenza il nemico che ci invita a combattere, male persino peggiore dell’inerzia. Non si tratta di vincere uno scudetto, raccogliere una tonnellata di carbone in più, pitturare un soffitto per l’eternità e neppure scrivere migliaia di pagine sdraiato in un letto. La molla morale della signora Segre che invita a fare nostra la sua lotta in difesa della memoria, rimanda alla più misteriosa delle motivazioni, la voglia di vivere – anzi, di sopravvivere – ad ogni costo.

Fra tutti tre memoir sull’inferno in terra mi hanno più colpito: “Intellettuale ad Auschwitz” di Jean Améry, “Se questo è un uomo” di Primo Levi e “Un altro mondo” di Paul Steinberg. Detto per inciso, non credo ne leggerò più altri, neppure quello della signora Segre: ogni testimonianza della Shoah mi è insopportabilmente dolorosa (non sono mai riuscito a vedere l’intero Schindler list). Gli esseri umani ridotti a animali, a insetti dannosi, a “Stück”, un pezzo, per indicare un individuo, una “riduzione” che riguardava anche i carnefici: chi annulla si annulla. E in tutto questo, nella fabbrica della nullificazione, nonostante questo, gli esseri umani ridotti a animali, insetti o Stück, vollero continuare a vivere. Gli uomini si abituano a tutto, si chiede Primo Levi. Quanto è grande la motivazione alla vita, chiedo a mia volta. Sta scritta nelle cellule, nel codice genetico, negli agglomerati di atomi che fanno di noi i figli delle stelle?

Nota

Paul Steinberg, il ragazzo chiamato Henry che Primo Levi incontra nei laboratori della IG Farben e giudica con severità, scrisse la sua memoria in tarda età giunto al bordo della vita. Per evitare che Auschwitz gli rubasse l’esistenza, disse. Il suo è il “documento amaro di una vittoria (la sopravvivenza) che è anche una terribile sconfitta (la costrizione ad un elementare egoismo) un doloroso viaggio nel ricordo di qualcosa che non può essere dimenticato, ma a stento può essere detto”.

Diverso il destino di Jean Améry, pseudonimo di Hans Chaim Mayer. Come Primo Levi scelse la via della testimonianza attiva. Come Levi non sopravvisse all’idea di essere uno dei pochi salvati tra i molti sommersi.