Non amo particolarmente la scrittura di Pennac, “Storia di un corpo” esclusa. Questa ovviamente non è una notizia, ma solo la premessa dell’inattesa soddisfazione che ho provato leggendo una sua dichiarazione al Festival di Pordenone: si fanno molti libri ma poca letteratura, ha affermato. Scienziati, sportivi, giornalisti, manager, per non parlare dei politici, scrivono (o si fanno scrivere da esseri resi abbietti dal bisogno come me) i loro libri (belli o brutti che siano) sostiene Pennac. Peccato che questa non sia letteratura. Letteratura la fanno solo quelli che campano di essa medesima. (E qui il nostro mi cade dal seggiolone perché in puro stile product placement mi cita la Ferrante – e vabbè – e poi il Giordano (sic!) quali esempi di letterati puri). Scelte discutibili a parte, riguardo al resto penso abbia ragioni da vendere. Diciamo, così a spanne e un tanto al kilo, che il primo requisito della letteratura (buona o pessime è un’altra storia) sia l’inevitabilità.
Ci sono persone diventate scrittori (buoni o pessimi è un’altra storia) esattamente come un individuo portato per natura si cimenta nella carriera di killer seriale, tossico o corridore di moto-cross. (Marx a proposito del poeta Milton sosteneva che scrisse il “Paradiso perduto” con la stessa inevitabilità biologica che costringe il baco da seta a secernere il suo filato). Chiamatela imprescindibilità delle scelte, costrizione coatta, nevrosi ossessivo-compulsiva, ma né Proust, né Joyce e neppure Musil, Celine o Thomas Mann (tanto per citare qualche garzoncello del secolo trascorso) poteva far altro se non scrivere; in modo che definire ossessivo non è esagerato, come testimonia la mole complessiva di documenti (lettere, articoli, diari) che ci hanno lasciato. Come la mosca va alla cacca, l’ape al fiore e il grillino alla cazzata, questa gente vive per scrivere e non può far altro. Come il matto che ogni giorno 365 giorni l’anno rifà con la penna biro lo stesso ghirigoro sul foglio (la chiamano art brut, ma questa è l’ennesima storia di ordinaria follia dei critici e di stupidaggine dei collezionisti danarosi che saranno poi giustamente separati dal loro denaro).
La domanda è dunque come si distingue la “vera” letteratura dalla “falsa”? Io non lo so. E neppure credo che potrò mai saperlo “a priori”. Nel dubbio, adotto da tempo la strategia della personalità scissa: bulimico-anoressico al tempo stesso. Come un bulimico la notte davanti al frigo nella scelta della saggistica; anoressico come una ballerina classica rintronata da troppi Bolero al cospetto della narrativa. Nei confronti della quale il criterio più saggio è quello enologico: la “buona letteratura” si rivela tale se regge la prova del tempo. Come i grandi rossi di Toscana e di Borgogna, un grande libro attraversa indenne i decenni, scavalca sorridendo i secoli, e in qualche raro e meraviglioso caso sgranocchia come grissinetti persino i millenni. Senza bisogno di marketing, festival e premi di princisbecco.
Il libro come l’abbiamo sempre conosciuto è destinato a scomparire come il povero pterodattilo? Forse. La cosa tuttavia è insignificante: riguardo al valore in sé, nell’arte della scrittura il supporto è sempre stato un dettaglio, importante ma pur sempre un dettaglio. Ciò che non morirà, finché vivranno (almeno) due umani è il bisogno di raccontare una storia. Ma deve essere davvero bella per suscitare il desiderio di ascoltarla ancora e poi ancora. Come i grandi vini, la grande musica, i grandi amori.