La prima che incontri sta sdraiata sul marciapiede davanti alla panetteria. Da un paio di giorni ce n’è una nuova, più giovane. Ma il claim di vendita è sempre lo stesso – “ciao capo, mi dai un soldinoooo?” – con la stessa voce strascicata. Svoltato l’angolo di via Pascoli, ti aspettano 200 metri tranquilli. Poi, all’altezza di via Colombo incontri il primo, di norma alto e statuario, abbronzato in modo imbarazzante rispetto a te che hai il grigio-verde d’ordinanza del milanese che non va a sciare. In genere sono quasi maestosi nell’inesausto tentativo di venderti accendini, collanine, elefanti di legno, fazzoletti di carta, puttanate altrimenti invendibili.
Partono con il gesto di darti la mano e con il saluto standard “ciao amico!” che deve essere stato insegnato loro prima di partire dall’Africa. Anche se è ovvio che non sei “amico” e che non hai nessun motivo per comprare le loro mercanzie, è impossibile non sentirli colleghi, anche loro venditori di una storia e di molti pretesti; colleghi sfigati e parecchio, certo, dotati di grande pazienza e dignità, le doti indispensabili per sopravvivere nel terziario avanzato (la seconda meno).
Dopo la fermata all’edicola, ci aspetta lo slalom di altri due o tre colleghi abbronzati. Saluti a tutti (ci si conosce da un pezzo) la promessa di un panino a mezzogiorno al più disperato. Traversata la piazza in via Villani incontri un’imponente figura mesopotamica, che nonostante l’evidente sovrappeso ti porge il cappello da baseball sostenendo a bassa voce di avere fame, molta fame. Inutile proporgli una brioche o segnalargli la mensa dell’Opera San Francesco, è qualche soldo ciò che vuole.
Nella piazzetta antistante all’ingresso del metrò staziona un signore anziano, magro, in gran forma, gran barba bianca curata, treccia di capelli alla Crosby, Stills, Nash & Young. Sta seduto con grande compostezza insieme al suo pastore tedesco. Non dice nulla, non ha cartelli, non suona. Il cane ha davanti a sè una pallina da tennis verde. Non è il caso di provare a sottrargliela.
Passo i tornelli e scendo nel metrò. Appostata sull’angolo una zingara munita di cartello d’ordinanza. Dichiara d’aver fame anche lei. Hanno tutti fame ultimamente. Arriva il treno direzione Loreto, di regola strapieno. L’ultima tendenza sono i suonatori amplificati a tutto volume; prima si scusano del disturbo, e poi strillano il loro repertorio per un paio di fermate. Perchè si scusino a priori è un mistero: sono consapevoli di dare fastidio? L’obolo che chiedono è la tariffa per farli stare in silenzio? In caduta libera la categoria “chiedo piccolo aiuto vengo da famiglia povera”. Marginale (due apparizioni) il genere “Ho l’Aids”. In netta ripresa la categoria saltatori dei tornelli.
Non frequento (purtroppo) persone facoltose. Tuttavia so che molte di loro non usano i mezzi pubblici e neppure i taxi bianchi. Preferiscono Uber. Non hanno il problema dei borseggiatori sulla 90, degli ubriachi la sera o delle gang di latinos. Non vivono in prossimità di un campo nomadi e neppure vicino a una discarica. Di fatto hanno meno bisogno di regole e del rispetto delle regole: le stesse che nelle società democratiche tutelano i più deboli.
Ma quando i più deboli non si sentono più tutelati, quando il puzzo di piscio in piazza Loreto prende alla gola, quando i passaggi per chi sta in carrozzella sono regolarmente ostruiti da auto in sosta, quando per terra ci sono cocci di vetro e cacche di cane, è allora che i più deboli rompono anche i residui, debolissimi, argini del buon senso e della tolleranza: semplicemente non ne possono più. E così succede quel che è accaduto ad Avigone, la civilissima città dei quartieri-ghetto che si è buttata tra le braccia della signora Le Pen.
Temo che il rispetto gentile delle regole sia oggi la cosa più rivoluzionaria al mondo.