Il mestiere delle arti

By on Nov 5, 2018 in Arte

Cosa deve fare un artista contemporaneo? O meglio, cosa non può o non dovrebbe fare? L’opinione di Hito Steyerl, artista visiva che indaga sul rapporto tra la tecnologia e i media è particolarmente interessante, anche in ragione del fatto che la rivista Art Review ritiene sia la donna più influente nel mondo dell’arte.

Secondo Hito Steyerl il ruolo dell’artista non può non essere politico; di conseguenza ritiene ci sia una totale assenza di etica in chi si pone al servizio di regimi autoritari. L’accusa è rivolta agli artisti e agli architetti – Hito Steyerl non si fa scrupolo di citare nomi e cognomi – che progettano musei o più in generale contribuiscono con la loro opera a legittimare regimi oppressivi se non addirittura sanguinari.

La tesi di Hito Steyerl porta alle estreme conseguenze (politiche) il postulato che attribuisce all’arte il compito di scuotere le coscienze mettendo (anche provocatoriamente) in crisi convinzioni consolidate; un ruolo “ontologicamente critico” che distinguerebbe l’arte dallo storytelling e del semplice imbellettamento della realtà. Il rapporto tra arte e potere è vecchio come il mondo. A un Virgilio soddisfatto cantore dell’impero fanno riscontro voci scomode e dissonanti, come ad esempio quella di Lucrezio. Dall’età latina sino al caso Dreyfus che vede schierata la “meglio gioventù” francese, il mondo dell’arte ha sempre, naturaliter verrebbe da dire, espresso scelte politiche. Un caso da manuale sono le tremende “Considerazioni di un impolitico” del 1915-18, opera che vede Thomas Mann polemizzare con i pacifisti e i partigiani della civilizzazione e rifiutare la democrazia occidentale moderna. (Per nostra e sua fortuna ebbe poi modo di cambiare opinione).

L’artista non può non essere schierato. Anche in assenza di pronunciamenti espliciti parla la sua opera, particolarmente quando il committente ha un nome e un cognome: è un Re, un principe della Chiesa, un Papa, o più semplicemente è un uomo ricco, se non estremamente ricco come accade ancora oggi. L’opera d’arte è politica per definizione e in ogni caso, anche contro la volontà dell’artista, per la semplice ragione che ogni narrazione – sia essa visiva, testuale e finanche asemantica come la musica – riguarda noi, il nostro mondo e pure il nostro tempo, utopie e distopie comprese. O di là o di qua, quindi. Come accade agli artisti cinesi più celebri. Ad un Ai Weiwei costretto all’esilio, ad un Liu Xiaobo candidato Nobel per la Pace morto in carcere, fa riscontro il successo goduto in patria del signor Mo Yan, pseudonimo di Guan Moye, Nobel per la Letteratura nel 2005, apprezzatissimo da un regime che definire illiberale è un eufemismo.

Tornando ai fatti di casa nostra, anche Michela Murgia, autore schierato come si diceva un tempo, condivide questa tesi. Al punto da aver pubblicato per Einaudi il pamphlet “Istruzioni per diventare fascisti” in conclusione del quale il lettore è inviato a compilare “il fascistometro”, test per misurare il proprio livello di fascismo. Il test è stato pubblicato dal settimanale “L’Espresso”, l’acquisto coatto della domenica.

La Murgia ha raggiunto il suo scopo. Ne hanno parlato gli opinionisti dei giornali ed anche in rete il riscontro pareva positivo; poi è caduto il mondo a Belluno, in Liguria e in Sicilia e inevitabilmente s’è parlato d’altro. Un vero peccato, perché il test della Murgia meriterebbe un’eco assai più vasta dei quattro gatti che ancora leggono i giornali più i soliti impallinati di politica sul web. Perché il fascistometro è l’ultima manifestazione del settarismo massimalista, la malattia che avvelena il movimento socialista dalla nascita, il responsabile della marginalizzazione della “sinistra”, il movimento di pensiero che come lo smemorato di Collegno non sa più chi sia né a cosa serva. Chiedere oggi ad un elettore il significato della parola “sinistra” equivale a consegnarlo all’imbarazzo.

Per la Murgia che con garbata fermezza mette sullo stesso piano la ruspa di Salvini e la rottamazione di Renzi, pare non esistano distinguo e neppure dubbi. Una narrazione talmente modesta da non prevedere la presenza degli “altri”, i milioni d’individui che compongono l’attuale maggioranza politica del nostro paese. Persone che hanno compiuto scelte che non piacciano a lei così come non garbano a noi, con le quali tuttavia è indispensabile inventare un linguaggio comune al servizio di un racconto comune. Inventare: dovrebbe essere il mestiere degli artisti, in particolare di chi vive di parole. Purtroppo l’ideologia fa male alla politica e ancora peggio all’arte.

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