L’altra sera a cena da V.M. Orecchiette con le olive, sformato di cavolfiore, polpette della mamma al pomodoro. Chiacchere tante e qualche pettegolezzo medico-scientifico: quelli di “Medici senza frontiere” impegnati in Africa (voto: 10) che ridacchiano sul loro score pazienti trattati / personale medico infetto che li vede trionfare alla grande sui loro colleghi spagnoli e (soprattutto) statunitensi (solo due pazienti / ben due paramedici infetti!).
Si parla di Ebola? Sì, si parla della nuova “malattia come metafora” (a proposito, date un occhiata al saggio di Susan Sontag; uscito con questo titolo in Italia nel 1992, era contrato su TBC, Aids e cancro; un testo attuale anche oggi. voto: 8 +).
Si parla dell’ultima ventata di isteria occidentale: dopo la mucca pazza, l’Aviariaa, la SARS e la Suina, voilà Ebola, il tema che serve a riempiere le pagine dei giornali e le bocche degli esperti. Una tragedia in Africa, un argomento da cicaleccio domenicale nei talk-show televisivi, per nostra fortuna beninteso. (voto: 2 meno).
Perché si ciancia di Ebola, fatto statisticamente irrilevante nel mondo ricco ed evoluto, e non di riscaldamento globale, di guerra dell’acqua, di un pianeta sempre più inquinato e sempre più densamente popolato?
Forse perché l’umanità non ha, non può avere, memoria di lungo periodo. E neppure è predisposta alla logica, anche a quella semplificata del “buono / no buono”. Forse perché ci piace aver paura degli orchi delle fiabe ma non sappiamo, non vogliamo, affrontare gli orchi della realtà.
Forse perché siamo inevitabilmente stupidi, giunti solo dopo un milioncino di anni al nostro piccolo capolinea evolutivo.
(A proposito: buono anche il cioccolato di V.M. insieme a un goccio di rum. Chissà fra trent’anni.).