Penso sia importante tornare a questa storia. Non riguarda solo il piccolo mondo della comunicazione, con le sue meschinerie e guerricciole tra bande, quanto quello incommensurabilmente più importante della vita civile. Senza informazione autorevole, affidabile perché verificata e verificabile, il delicato sistema che genera la formazione delle opinioni va in teratogenesi (era un sacco di tempo che avevo voglia di usare questo termine oscuro e terribile che letteralmente significa “generazione di mostri”; ecco, l’ho scritto e sono contento) e chi ritiene che la Terra sia piatta, i vaccini installino i 5G nella testa e, più in generale, che ogni forma di conoscenza e competenza sia al servizio della PFGP (Poteri Forti al Governo del Pianeta) considera ogni topica del sistema dell’informazione una colossale ennesima conferma delle sue tesi.
I fatti: intervistato dall’attuale direttore Maurizio Molinari, il fondatore de “La Repubblica” anticipa di qualche anno la morte di Berlinguer rispetto a quella di Aldo Moro. All’inizio se ne sono accorti in pochi; diciamo solo quelli che comprano il quotidiano in edicola e hanno il coraggio di leggere Eugenio Scalfari. Quelli che leggono il digitale la merdaccia l’hanno scansata solo per qualche ora, il tempo necessario perché il web desse traccia di una puttannata grande come una casa e brutta come un condominio di periferia.
Certo: la vecchiaia non è una colpa, ma neppure un merito. Non è una colpa se Scalfari, un tempo lucidissimo e ferino commentatore degli eventi, oggi barcolla sulla pagina come un ubriaco sul ponte del Titanic. Doveroso però chiedersi il perché di interviste banali quanto insensate; il perché dello spazio concesso ogni domenica alla sua (a questo punto) commovente egolatria. Ma anche questo, persino questo, potrebbe avere una spiegazione: logiche di potere, o forse logiche contrattuali. Il problema vero, enorme come un paziente del dottor Nowzaradan, è perché mai Molinari non rilegga ciò che scrive, ammesso abbia scritto lui ciò che firma; perché nessuno abbia controllato prima di andare in stampa; perché una testata che pretende di diventare un riferimento europeo è ogni giorno sfigurata da errori e refusi.
Nel nostro paese il sistema dell’informazione è in crisi da anni. Modesti lettori eravamo, modestissimi siamo diventati nel momento in cui il web ci ha illusi che si potesse avere buona informazione senza pagare il biglietto: ehi Jack, se è gratis la merce sei tu, recita un vecchio proverbio markettaro. Così, insieme ai mensili e ai settimanali, anche i quotidiani boccheggiano come carpe nelle anse dei fiumi in secca. C’è chi taglia gli organici, chi le collaborazioni, chi entrambe; e quasi tutti perdono copie come petali di tulipani avvizziti. Così, muoiono le edicole (punti vendita ad alto potenziale che non hanno saputo né voluto adottare una nuova identità commerciale). Così i “giornaloni”, come venivano chiamati dai più sgangherati tra i populisti, iniziavano la loro discesa all’inferno: titoli strillati sul cartaceo reso immondo da una qualità di stampa infame, clickbait a go-go sul digitale nel tentativo non si sa se più stupido o suicida di fare concorrenza a chi a colpi di clickbait prospera navigando sapiente nel vasto mare delle puttannate e delle notizie false. (Temo sia inutile chiedersi perché gli italiani amino le puttannate e le notizie false, accade così in tutto il mondo: Carlo Cipolla docet, la moneta cattiva ce l’ha sempre vinta facile su quella buona).
Ho ascoltato con paziente interesse una lunga intervista di Maurizio Molinari sui futuro dell’editoria. Sulla necessità di partire dai contenuti di qualità declinandoli su tutti i mezzi e i veicoli disponibili: carta e web. Per conquistare (e sedurre) ogni target di lettori, soprattutto quelli che non leggono. Ed ecco, come per magia, un fiorire di longform, video, podcast, newsletter e ogni genere di approfondimento on-demand. Il New York Times insegna, afferma sornione come il gatto del Cheshire il pur valido Maurizio: più giornalisti, meno articoli, più qualità; integrazione totale tra redazione ed Ebeta digitali è la formula del successo. È così che crescono gli abbonati e il conto economico torna florido come il busto di Orietta Berti, conclude con ecumenico ottimismo il direttore.
Da ingenuo (traduzione simultanea: fesso) qual sono, mi ero convinto che il Direttore con la “d” maiuscola avrebbe il giorno dopo preso il toro per le corna come si suo dire. Spiegando. Giustificando. Scusandosi con i suoi lettori quelli che pagano il biglietto. Invece nisba, neanche una cartolina, un saluto, un bacetto mentre il treno si allontana. Peccato: la credibilità è indispensabile per i giornali quanto la verginità per Maria Goretti. Senza sono giusto buoni per incartare il pesce.