Ci sono letture che hanno il dono di risuonare a lungo nella mente nonostante le asperità le rendano più impegnative di una domenica all’Ikea. “L’ordine del tempo” (Adelphi, 14 euro) di Carlo Rovelli è una di queste.
Carlo Rovelli persegue i tre doveri aurei dello scienziato, più un quarto: ricerca, insegnamento, divulgazione scientifica. Se l’importanza delle prime due è intuitiva, la terza è diventata vitale. Quando la collettività smette di riconoscere alle istituzioni scientifiche e al “fare scienza” il ruolo di agenti di progresso e civilizzazione, sono guai e grossi: il medioevo prossimo venturo è dietro l’angolo.
Così tra una gara e l’altra a chi ne sa di meno ma urla di più, fare divulgazione scientifica sta diventando più importante del fare ricerca. Solo le società che sanno distinguere i miti dai fatti, le saghe dalle dimostrazioni e le leggende dalle verità sperimentali, riconosce alla scienza i suoi meriti e di conseguenza è disposta a sostenerla e a praticarla nelle scelte della vita quotidiana; la triste vicenda dei no-vax, di norma persone per bene e sane di mente che come per incantamento hanno più paura dei vaccini che delle malattie, fa dolorosamente riflettere.
Tornando a Carlo Rovelli, il quarto carattere distintivo è l’erudizione. Un fisico teorico i cui studi riguardano la gravità quantistica; uno studioso di epistemologia, di storia della scienza e della filosofia, i cui saperi sono al servizio di una scrittura esemplare per chiarezza, rapidità, precisione e coraggio. Quante volte vi è capitato di incontrare uno scienziato che afferma in modo sereno “questo è certo, mille volte dimostrato” mentre “quest’altro non lo è ancora, e forse non lo sarà mai, anche se mi sembra plausibile”?
Il tema del libro è il tempo. Quello che ci appare nell’esperienza quotidiana, e quello dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande; il tempo delle particelle e quello delle galassie. Un percorso che conduce a conclusioni controintuitive (il tempo non esiste?) ad una visione straniante della realtà. Rovelli usa spesso in modo assai felice la metafora “sfocatura”. Non comprendiamo i fenomeni dell’universo per via della sfocatura, quella stessa che per millenni ci ha resi convinti che il Sole girasse intorno alla Terra (perbacco! s’alza a levante e tramonta a ponente, non vedi?) che ci impedisce di “vedere” l’agitazione quantistica di atomi e molecole di un bicchier d’acqua e comprendere il tempo senza tempo dell’universo.
Dopo alcuni capitoli di straniante difficoltà dove il concetto chiave è l’entropia motore del nostro mondo, la conclusione del lavoro di Rovelli è il ritorno all’umano, alla nostra idea – limitata, imperfetta e inevitabilmente sfocata, di tempo. (Inattesa e quindi assai gradita la connessione dello scienziato-umanista alla “Recherche”, l’opera novecentesca che sul tempo ha costruito una cattedrale).
Un tempo, molti secoli fa, gli scienziati erano coloro che non solo sapevano di scienza (“filosofi naturali” li chiamavano) ma anche di arte, musica, pittura, letteratura. Pensatori dallo straordinario coraggio intellettuale: c’era tutto un mondo ignoto da svelare e da comprendere. Un tempo nient’affatto felice: gli intellettuali, gli spiriti liberi, rischiavano il rogo e la mordacchia. Un tempo in cui contrariamente alla vulgata, i mulini non erano bianchi e il problema delle genti era sopravvivere. Alle guerre, alla fame, alle malattie.