Ultima domenica di giugno, pioviggina. Sfoglio i giornali. Nelle prime pagine diluvio di commenti per la “sconfitta di Cameron, umiliato dalla UE” e il rischio che il Regno Unito abbandoni l’Europa. Ne leggo un paio, più per dovere che per interesse. Giro i fogli e m’imbatto nella foto: la statua che i serbisti a Sarajevo hanno dedicato a Gavrilo Princip. Lo onorano come un martire: così non posso non leggere l’articolo di Adriano Sofri, un misto (come quasi sempre) di lucida intelligenza e sprezzo della sintassi.
Le due cose – gli inglesi che non vogliono un’Europa federale e i nazionalisti feroci e imbecilli – vanno purtroppo di pari passo. Nel senso che entrambi i fenomeni continuano a frenare il solo processo – la costruzione degli Stati Uniti d’Europa – che ci potrebbe salvare tutti dall’insignificanza: europei del Sud, del Nord e del Centro.
Nel 1492 quello sciroccato di Colombo scoprì le Americhe, che beninteso ancora non si chiamavano così e anzi non si chiamavano affatto, convinto di essere approdato nelle Indie. Succede. Quel che successe dopo si chiama globalizzazione. I paesi più culturalmente pronti a coglierla, da quella prima globalizzazione trassero immensi benefeci: Portogallo, Spagna, Inghilterra, Olanda e poi Francia. Noi che avevamo già inventato il made in Italy a colpi di Umanesimo e Rinascimento, non capimmo una mazza.
Il cambiamento, insieme alla nostra ottusa divisione municipale, ci relegò a provincia d’Europa per i restanti 500 anni, e ancora lo siamo. (Giusto le manie di grandezza e il narcisismo di qualche papa e cardinale ci consentì di segnare qualche altro goal nella partita dell’arte, e poi nisba). Ora la storia si ripete, e ben più minacciosa di 500 anni fa.
Domanda delle cento ghinee (in onore a David Cameron). Stavolta il gioco di ruolo europeo lo facciamo così: sta in Europa chi davvero ci crede (democrazia, tolleranza, rispetto delle minoranze, moneta, politica estera e difesa unica…). Gli altri, quelli a cui non va, graziosamente si scavano dai maroni.