Questa sarebbe bella se non fosse anche maledettamente stupida, come direbbe chi come il Baricco è cresciuto a pane e Salinger. Viviamo nell’epoca più informata della Storia (con la esse maiuscola in onore di zio Hegel). Milioni di smartphone, in grado di documentare anche dove Roger* abbia depositato il suo contributo mattutino, producono miliardi di file condivisibili con un semplice click. Miliardi di dati, testimonianze, filmati e documenti tuttavia non bastano a farci superare la barriera dell’incredulità: qualcuno sospetta che l’uomo non sia mai stato sulla Luna, più d’uno sostiene che nessun ebreo perì nel crollo delle Torri Gemelle. Sono legioni coloro che avanzano dubbi sull’utilità dei vaccini.
Ora è il turno di Bucha. Il massacro, la tortura e lo stupro di civili ucraini che non tutti sono disposti ad attribuire agli invasori russi. Nonostante le evidenze siano spaventose e inequivocabili come le immagini dei cadaveri fotografate all’atto della liberazione dei campi di sterminio, qualcuno (più d’uno) rifiuta il così detto “pensiero unico”. Scrive Giorgio Levi sul suo blog: “Al fronte ucraino, in questo momento, c’è la più vasta presenza di giornalisti della storia. Mai nessuna guerra ha raccolto tanti cronisti. E molto di loro rischiano la vita in proprio, perché non inviati da giornali o network televisivi. Sono entrati dai confini con la Polonia tantissimi freelance, così numerosi che nessuno oggi è in grado di dire quanti giornalisti ci siano sul terreno di guerra. Forse lo sapremo alla fine. Ma tutti, nessuno escluso, sono lì per vedere, filmare, fotografare, raccontare a noi che soffriamo i bombardamenti di Putin seduti sul divano con birra e patatine. Dovremmo dirgli grazie. E invece no. Il fronte degli ossessionati dall’informazione globale guidata da loschi burattinai (in genere banchieri o uomini della finanza, se sono ebrei meglio) che dirigono il giornalismo mondiale a proprio piacimento. Gli ossessionati sono trasversali alle categorie sociali. Quelli che vediamo in tv in genere sono professori, filosofi, docenti di qualche cazzo di cosa, ex inviati di guerra che la sanno lunga perché sono stati in Vietnam (i più canuti) o in Bosnia o chissà dove”.
Eppure la sospensione dell’incredulità, il particolare carattere semiotico che “consiste nella volontà da parte del lettore o dello spettatore di sospendere le proprie facoltà critiche allo scopo di ignorare le incongruenze secondarie e godere di un’opera di fantasia”, la applichiamo quotidianamente. Quando accettiamo l’idea che il gatto Behemoth de “Il Maestro e Margherita” sia in grado di parlare e camminare sulle zampe posteriori; quando il personaggio della nostra serie preferita ha una serie di sfighe che neanche Papa Luciani e nonostante tutto sopravvive puntata dopo puntata; quando ci pare ovvio che il piccolo Otto de “Le affinità elettive” assomigli al Capitano e a Ottilia anziché ai suoi reali genitori.
Non crediamo più a niente perché abbiamo creduto troppo in passato? Siamo forse diventati tutti astuti sofisti che, al confronto, il maestro chassidico ci spiccia casa, come dicono a Sciences Po? Oppure non crediamo più a niente e a nessuno perché credere in qualcosa o a qualcuno significa schierarsi emotivamente, e ogni scelta amorosa espone fatalmente al rischio della delusione, della perdita, del lutto? La storia (con la esse minuscola dei manuali) non insegna dunque nulla?
Ci fu un tempo neanche tanto lontano in cui quasi tutti credevano a tutto. Fatto salvo quelli finiti al confino, in galera o espatriati per tempo – a contarli più o meno quattro gatti – i nostri compatrioti credevano entusiasticamente. E la più parte di loro obbediva e perfino combatteva senza fare troppe storie. E’ la dura lezione che Renzo De Felice impartì liberandoci dagli stereotipi dell’antifascismo di maniera. Sino alle leggi razziali del ’38 e oltre gli italiani credettero a tutto. Persino che fosse giusto che ai nostri compatrioti di cultura ebraica fosse impedito di andare a scuola. Gli italiani credettero anche quando aggredimmo la Francia già sconfitta dai tedeschi e poi durante la guerra in Albania e l’invasione della Grecia. Continuarono a credere anche quando l’Armir partì per il fronte. Iniziarono a nutrire qualche dubbio solo quando le bombe degli aerei alleati caddero sulle città e gli alpini non fecero ritorno dal Don.
Inevitabile chiedersi di chi sia la responsabilità se non addirittura la colpa. Anne Applebaum non ha dubbi in proposito. Nel suo “Il tramonto della democrazia” esprime una critica radicale e circostanziata alle nuove élite generatrici di idee illiberali e autoritarie, idee che stanno ottenendo un crescente consenso tra le masse. Trump negli USA e Boris Jhonson in Gran Bretagna, tanto per non fare nomi. Altrettanto chiare secondo l’autrice le conseguenze: “Nessuna vittoria politica è mai definitiva e nessuna élite – populista, liberale, aristocratica – domina per sempre. La storia di ogni grande civiltà include periodi culturalmente illuminati e altri di cupo dispotismo. Anche la nostra storia, un giorno, apparirà così”.
Auguriamoci che la Applebaum abbia torto. Nel frattempo sono dell’idea che sia nostro dovere fare qualcosa per far proseguire il periodo culturalmente illuminato in cui abbiamo avuto la fortuna – ma, temo, non il merito – di vivere. Consapevoli che c’è qualcosa persino peggiore dello spettacolo del male: la negazione del male, i sottili distinguo, gli inviti a verificare i fatti e le fonti anche quando i fatti e le responsabilità sono chiare e distinte. Gli artisti del negazionismo, quelli che “ad Auschwitz si moriva di raffreddore”, sono sempre all’opera, sono tra noi. E all’apparenza sembrano individui normali.
* La foto ritrae Roger, esemplare di jack russel a pelo ruvido gioiosamente ignaro dei guai che stiamo attraversando