Correva l’estate del ’67. L’anno in cui Israele sbaragliò in sei giorni gli eserciti di Egitto, Siria e Giordania. Quell’inizio di estate, come tutte le estati della mia adolescenza, lo trascorrevo in riva al Po in un quello che allora mi sembrava un angolo di paradiso tra campi da tennis, piscina e gite sul fiume.
In quell’estate gli operosi soci della “Canottieri Casale” terminavano la costruzione di un rudimentale campo di calcio, terra letteralmente strappata al fiume. Due porte, qualche segno di gesso destinato a durare lo spazio di un mattino, e l’incredibile almeno per me entusiasmo degli energumeni seminudi che sotto il sole giaguaro combattevano sfide infinite.
Campo Sinai l’avevano chiamato per via dei nugoli di polvere secca che si alzavano ad ogni (raro) refolo di vento, ad ogni scatto, tiro, percussione. E campo Sinai continuò a chiamarsi sino a che il Comune dichiarò demaniale quello spazio alienandolo.
Campo Sinai, come la gloriosa campagna di Israele. Il piccolo Israele circondato da forze soverchianti. Il piccolo Davide che sconfigge l’ennesimo Golia. Con l’intelligenza, il coraggio, la tecnologia. L’Occidente democratico che, come da copione, mette in riga il dispotismo asiatico, la democrazia greca che arresta l’avanzata dei persiani. Il meraviglioso talento dei figli della Shoah che, soli e circondati dai nemici, impartiscono una magistrale lezione militare.
(Non che la brava gente della Canottieri Casale esprimesse in forma compiuta questi pensieri; bottegai indifferenti alla politica, conservatori se non reazionari come tutti i borghesi monferrini, davano tuttavia istintivamente vita ad un sentimento chiaro e condiviso: il numericamente più debole la vince sul più forte, l’aggredito mette in fuga l’aggressore e deve, persino!, moderare la propria forza: se la politica non la ferma, Tsahal sarebbe tranquillamente arrivata sino al Cairo e oltre).
Del resto, come non tifare per Israele, per i volti aperti e intelligenti dei suoi giovani soldati, per la benda che cingeva cinematograficamente il volto del suo condottiero, il sempre sorridente (almeno così appariva nelle foto) Moshe Dayan? Per non parlare poi delle soldatesse, belle, libere, determinate, un vero e proprio contrappasso umiliante se confrontate alla misera e vergognosa condizione in cui era (in cui continua ad essere) costretta la donna araba, macchina da figli senza diritti, perennemente infagottata e col capo coperto da veli, regolarmente ripresa in qualità di prefica urlante nei decenni successivi dai cinegiornali di tutto il mondo.
Fu lì credo che Israele iniziò a perdere. Quando sicuro della propria efficacia militare, smise di pensare in chiave politica e puntò tutto sulla forza. Tanto li battiamo anche con una mano legata dietro la schiena. Tanto noi siamo ricerca scientifica, tecnologia avanzata, intelligenza. Tanto tutto il mondo (buona parte del mondo) sta dalla nostra parte. Tanto loro sono pulciosi arabi incapaci. (Poi venne tutto il resto: le stragi nei campi palestinesi, le Olimpiadi di Monaco, Settembre nero e l’incapacità di pensare la pace prima ancora di volerla).
Iniziò allora a perdere Israele, e ancora continua passando da una sconfitta all’altra, la guerra più importante: quella dell’affetto. Tra (confusi) terzomondisti, antisemiti della prima ora, emigrati arabi assortiti, l’odio verso Israele cresce come la confusione e la menzogna: si confondono gli ebrei con gli israeliani, e gli israeliani tout court con gli israeliani fanatici e oppressori che ci sono, e sono molti, ma non sono tutti né tantomeno ebrei. (E chi si riconosce nel sogno di “due popoli, due Stati”, ha ormai smarrito la speranza).
Guardo le foto a colori dalla striscia di Gaza: Tsahal funziona sempre a meraviglia, i soldati hanno i volti degli studenti di ingegneria e informatica prestati alla guerra. Anche le soldatesse sono sempre charmant. E’ Israele ciò che sembra perduto per sempre.