Fonti purtroppo attendibili annunciano le nuove tendenze della moda: le grandi griffe abbandonano il Monte Dodici e scendono a fondovalle. Sarà l’anno – il biennio, il triennio: oltre la moda di norma non va – della ciabatta, del sabot, dell’infradito, del sandalo. Stop ai tacchi vertiginosi e via libera al cic-ciac sincopato su pavimenti e marciapiedi.
Nulla di male in sé: raramente, per non dire quasi mai, gli oggetti disegnati dalle grandi maison sono ridicoli, grotteschi o, peggio, privi di gusto (l’assenza di gusto è un crimine infinitamente più grave del cattivo gusto: tra le due cose corre la stessa differenza che passa tra una donna brutta e una donna insignificante; la prima può essere seducente come una dea, intrigante come una Circe, irresistibile come una strega, mentre la seconda è solo una triste iattura).
Ma in questa discesa in pianura c’è un dramma ed è di vaste proporzioni. Una tragedia che al confronto la fuga dalla schiavitù d’Egitto è l’equivalente di un cazzeggio sulla Promenade des Anglais, nasce dal fatto che il livello alto (di tono, di gusto, di stile, di cultura) finisce sempre parodiato dal livello basso che il sistema delle merci e del consumo inevitabilmente impone.
Così il linguaggio via della Spiga, sensato o insensato che sia, fatalmente degenera nel breve volgere di poche settimane nel vernacolo di Quarto Oggiaro, il vorrei-ma-non-posso che trasforma prima in pop e poi in trash ogni esercizio di stile elaborato dalla “cultura alta”, la sola capace di produrre oggetti (più o meno belli, più o meno gradevoli) ma comunque risultato di originalità creativa e autentica sapienza produttiva. (L’egenomia culturale è funzionale, come sostiene la scuola di Francoforte, al perpetuarsi dell’egemonia sociale?).
Un processo degenerativo che riempie di bruttezza le nostre città e ogni spazio collettivo, il risultato dello scimmiottamento di ciò che “cultura alta” produce e che l’aura delle grandi firme impone e legittima. Così è stato per i leggin, oggetto che richiede un’assoluta perfezione morfologico-motoria, di norma indossato senza alcuna reticenza dai soggetti femminili più inadeguati.
Gli esempi delle metamorfosi mostruose dallo chic al trash sono praticamente infiniti: ogni abito, ogni accessorio, ogni oggetto di decoro una volta copiato e riprodotto senza costrutto e indossato fuori contesto, si trasforma inevitabilmente in marcatore del coatto.
Così accadrà anche all’orrida ciabatta. Sdoganata dalle immagini patitanate dei servizi di moda e riprodotta in variegate plasticose versioni me-too, verrà esibita con leggiadra trascuratezza mediterranea (eufemismo) in ogni situazione, circostanza, consesso, ambiente.
La scarpa, le scarpe, sono oggetti importanti. Si potrebbe fare della buona ricerca etnografica osservandole con costrutto. (Per non parlare di ciabatte, sandali, zoccoli, infradito o birkenstock). Ricordate la scena del casting in “Sogni d’oro”[1] di Nanni Moretti? Chinato per terra, spiando attraverso la fessura della porta, il regista sceglie i protagonisti del film in base alle scarpe. O meglio: scarta a priori coloro i quali indossano calzature indecorose. (Il concetto di decoro spalanca un abisso interpretativo di cui magari parliamo un’altra volta).
“Odio l’estate“, cantava un lamentoso Bruno Martino nei tardi anni ’50. Io la amo, e pure molto. Così come amo il rumore degli zoccoli e lo sciabattare delle infradito sui lungomare e sulle spiagge. Ma a Milano (a Roma, Berlino, Parigi, Venezia, New York…) la ciabatta, per favore, no. Il mocassino, la sneaker, l’espadrilla: a piedi nudi, piuttosto. Ma la ciabatta, no. Care grandi Maison, forse siete ancora in tempo a mutare rotta. Salvateci, vi prego.
[1] Ringrazio ECV per la puntuale segnalazione