Le parole fra noi leggere

By on Lug 13, 2020 in Filosofia

Ci sono parole che hanno conosciuto i fasti della gloria al punto di divenire sinonimi di categoria filosofico-politica. Una di queste è “progresso”, lemma esaltato dall’esplosione positivista di fine ‘800, caduto nelle polvere largo circa al termine della prima guerra mondiale e tutt’ora considerato un’ingenuità grossolana dal pensiero post-modernista contemporaneo.

Il tema del progresso, l’idea stessa di progressione intesa quale miglioramento umano e sociale, scatena reazioni unanimi dalle curve degli apocalittici quanto degli integrati. Per i primi parlare di “progresso” dopo la crisi economica e la pandemia è folle più che insensato; per i secondi, nostalgici delle tradizioni nazionali (quali che fossero) il sogno è semmai il regresso, il ritorno perché il “prima” è sicuramente meglio del “dopo”.

Per entrambi la colpa è comunque della scienza e della tecnica: disumanizzata e disumanizzante per gli apocalittici, manipolatoria e sfruttatrice per gli integrati.

Parlare di progresso, e di inevitabilità di progresso, non è chic. Molto meglio, come ha fatto certa sinistra dagli anni ’70 in avanti, baloccarsi con i sacri testi della metafisica novecentesca, compulsare compiaciuti le oscurità di Heidegger, commentare Severino, facendo propri in modo entusiastico gli assiomi del pensiero post-moderno. Così si è fatta ampia strada la pretesa che non esista una verità oggettiva, che tutto il sapere è questione di potere e sta nello sguardo di chi narra una storia; in tal modo le opinioni hanno sostituito i fatti e i legami tribali sono giunti a scavalcare consenso e senso comune. (Un assist perfetto per il potere, quello vero, che ne ha approfittato al volo per creare una propria realtà).

Il piccolo testo di Aldo Schiavone (“Progresso”, Il Mulino) ha il merito di fare piazza pulita delle sciocchezze apocalittiche quanto di quelle integrate. Gli è sufficiente ricordare che nel mondo antico Platone era nella condizione di poter pensare perché c’erano gli schiavi e le donne chiuse in casa ad assicurare la produzione dei beni materiali. All’enorme ricchezza di pensiero faceva riscontro la miseria scientifico-tecnologica che legittimava (e imponeva) la schiavitù. Così per gli ultimi duemila anni.

Oggi assistiamo al ribaltamento del rapporto tra potenza tecnologica e ragione. Una relazione che va riequilibrata da un nuovo umanesimo, una nuova antropologia, una nuova idea di socialità ma, sostiene Schiavone, indietro non si torna. Impossibile dargli torto. I problemi creati dalla tecnologia – innegabili e affatto insignificanti – possono essere risolti solo dalla tecnologia – da “più” tecnologia, non da meno – non dallo sciamano e neppure dal poeta.

Credo sia di qualche interesse notare come le “parole” intese come sistemi concettuali un tempo duravano secoli se non millenni: l’idea di schiavitù, di razza o di primato del maschile rispetto al femminile; ciò che crediamo esista da sempre è spesso (quasi sempre) ridicolmente recente: come, ad esempio, l’“invenzione” del bambino e dell’adolescente, idea nuovissima che risale alla fine dell’Ottocento.

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