Le cattive compagnie

By on Giu 17, 2015 in Comunicazione, Contemporaneità

Non ho la più pallida idea del perchè le società di assicurazione si chiamino compagnie proprio come la Compagnia di Gesù, la Compagnia delle Indie e la Compagnia di San Paolo. Ma il mistero più interessante credo sia la relazione che queste aziende vivono con i loro clienti. Complessa, tortuosa e tormentata, basata com’è sulla reciproca sfiducia e sul costante (reciproco) tentativo di frode. Una battaglia inesausta a chi fa più fesso l’altro che si combatte ogni giorno a colpi di clausole, franchigie, codicilli, e improbabili richieste di rimborsi per grandinate, atti vandalici, colpi di frusta assortiti, scontri automobilistici tra parenti e affini.

Un mercato quello delle assicurazioni italiane che potrebbe tranquillamente prosperare assumendo le dimensioni degli altri paesi europei se solo operasse a colpi di (autentica) trasparenza e di altrettanto sereno rigore nei confronti dei simulatori e dei furbi. Ma in Italia tutto pare sempre più difficile che altrove. Più contorto. In una parola: falsato.

Come la storia che mi racconta l’amico G.

“L’estate scorsa mi trovai in difficoltà. Prima un cliente, poi due, poi tre, iniziarono a ritardare i pagamenti. Qualcuno non pagò del tutto. Insomma, per fartela breve ero in crisi di liquidità e decisi di tagliare un paio di polizze che avevo in scadenza. Chiamo il mio agente, uno bravo, competente, a cui avevo portato un sacco di lavoro segnalandolo a nuovi clienti in ragione della sua affidabilità. Mi ascolta e mi tranquillizza: le tengo qui ferme le tue polizze, non preoccuparti. Poi, quando ti pagano, le saldi”.

Qui l’amico fa una pausa e deglutisce.

“Passa qualche settimana e ricevo la telefonata dell’agente. Ciao!, mi fa con voce affettuosa e stentorea. Le polizze ormai sono in scadenza, che facciamo? Come che facciamo, gli rispondo, ti avevo detto che mi sarei fatto vivo io per confermartele qualora fossero entrati dei pagamenti!”.

“Non dirmi che le aveva mandate avanti lo stesso” lo interrompo

“Già”, continua l’amico. “Mi ha spiegato che vanno avanti in automatico se non le si blocca prima”.

“Prima quanto?”

“60 giorni” dice G. con la voce che gli si spezza. “Peccato che non lo sapessi. Non sapevo che bisognasse comunicarlo tanto prima”.

“Il tuo agente non te l’aveva detto?”

“Ma figurati…!”

“Quindi eri fuori dai termini. Che hai fatto?”

“Che vuoi che facessi… Ho concordato con lui una lettera retrodatata. Ma ovviamente non andava bene” conclude.

“Ovviamente” gli faccio eco. “Ma l’agente, il tuo agente, ha preso le tue difese?”

“Mah, credo di sì. Forse…” conclude l’amico. “In realtà mi disse che aveva chiamato in sede ma non si poteva fare niente. La pratica era già protestata, o cosa altro diavolo dicono loro”

“E poi che è successo?”

“Prima mi chiama – una volta, due, tre – un tizio da un fisso di Bergamo. Uno che parla in burocratese con l’accento siculo. Non vuol sentir ragioni: devo pagare. Registro il numero ed evito di rispondere alle chiamate successive. Poi cominciano le mail e continuano le telefonate, ma da un nuovo numero; questa volta provengono da un cellulare. Chi chiama è una donna con l’accento sardo”.

“Ma il tuo agente” – interrompo io – “che dice il tuo agente?”

(l’amico ha il volto scurissimo)

“Il mio agente? dice che non può far niente. Che devo solo resistere qualche mese…”

“Qualche mese?!?!”

“E prima o poi piantano lì perchè scadono i termini”.

“I termini de che?”

“Ma che ne so! Forse il tempo concesso loro per romperti le palle!”.

“Quindi, come andata a finire?”

“Dopo la sarda è stata la volta delle lettere di un legale di Catanzaro. Lettere normali, non raccomandate: la invitiamo qui la invitiamo là… Decorsi i termini hanno smesso. Ma l’agente, il mio caro agente, mi ha spiegato che c’è gente che cede. Che si sente in colpa. E paga anche se non dovrebbe. I più deboli, secondo lui”.

“Già, i più deboli. Sempre loro”.

Questa è la storia di un cliente ideale, di quelli che hanno comprato e pagato sull’unghia più prodotti assicurativi per anni. Un cliente che è oro: margine puro per la Compagnia, non essendo mai incorso in sinistri o altro. Questo cliente di cui la Compagnia non sa valutare (non vuole valutare, non interessa valutare) nè la posizione nè il valore, diventa automaticamente l’oggetto di inutile campagna di recupero crediti. Inutile, perchè è certo che se il cliente resiste a qualche telefonata seccante, un paio di mail e due lettere, l’azione sarà inefficace. (Evidentemente, se le Compagnie cedono il credito a società specializzate nel recupero, avranno le loro buone ragioni: la statistica, scienza che conoscono molto bene li guida. O no?).

Sia come sia, è certo che tutti gli altri, quelli convinti di essere nel giusto, quelli che non mollano, si trasformano automaticamente in testimoni, dando vita ad un passaparola negativo piuttosto consistente. Ma quale sarà mai il problema? Se così fan tutti e delle polizze assicurative non puoi fare a meno, cambiare Compagnia non serve.

Morale della storia

Sono anni (anni e anni) che chi cerca di fare onestamente il mio mestiere (nel senso di eticamente: non mangiando a ufo il pane del cliente) si sforza di convincere il mondo del denaro e dei servizi con il denaro che la sola strategia di mercato vincente è l’onestà: fare le cose diversamente da come le fanno gli altri perchè si è diversi. Geneticamente diversi. Antropologicamente diversi. Soggetti economici trasparenti, che tutelano il loro valore tutelando il valore cliente. Non è impossibile, e non è neppure terribilmente difficile. Eppure nessuno lo fa sistematicamente.

Forse che cattive compagnie sono come la cattiva moneta che inevitabilmente scaccia la buona?