Un tempo le cose erano più semplici anche in editoria, o almeno così apparivano. I cataloghi erano suddivisi da tre voci: narrativa, saggistica, varia, quest’ultima usata il più delle volte come refugium peccatorum nel quale confinare i titoli di incerta attribuzione. Negli ultimi anni la tassonomia editoriale ha ovviato al problema ramificando una pletora di generi, sottogeneri e collane con un esuberanza inferiore solo alle sigle della popolosa sinistra italiana. Così, i nomi di collana oltre a celare perfettamente il contenuto, sfidano coraggiosamente il ridicolo come il sublime “I cavoli a merenda” dell’Adelphi.
Chiedersi in che cassetto sistemare un libro potrebbe sembrare questione di lana caprina o, peggio, quesito della Scolastica medievale del tipo quanti angeli stanno su una capocchia di spillo. Non è così per due ordini di ragioni: la prima è la “Legge di Borges” secondo la quale un’opera di valore cambia irrimediabilmente il modo di leggere quelle precedenti; la seconda, più banale, è che molta (tutta?) la letteratura del Novecento è un magnifico meticciato. Esempi in ordine sparso: “Romanzo di un romanzo”, racconto di Mann sulla genesi del Doctor Faustus, è saggistica o narrativa? E lo stesso Faustus, cos’è se non una gigantesca contaminazione di generi? (Per non parlare della Recherche, il capolavoro totale dove la riflessione sulla natura delle cose è il naturale contrappunto dell’invenzione narrativa). Mentre scrivo mi vengono in mente le altre grandi contaminazioni: “I sonnambuli” di Broch e Austerlitz”, “Gli emigrati” e “Gli anelli di Saturno” e più in generale ogni lavoro di Sebald, lo scrittore che abbiamo precocemente perduto, travolto da un evento che pare uscito dalle sue pagine. (Ma certo, c’è anche Naipaul, altro specialista della narrazione saggistica: ma è una scrittura di pesantezza astiosa la sua, e non riesco a considerare il premio ricevuto se non come l’ennesimo Nobel “politico”).
Arrivo finalmente al titolo del post. “L’asino del Messia”, l’ultimo lavoro di Wlodek Goldkorn, l’uomo che dopo aver curato per anni i libri degli altri finalmente s’è deciso a prendersi cura dei propri. Penso vada inteso (e quindi letto) come la prosecuzione de “Il bambino nella neve”, la prima parte della riflessione di Goldkorn su cosa significhi essere ebrei nel secolo della Shoah. A scanso di equivoci una riflessione che riguarda tutti e in modo particolare i non-ebrei. Perché, come ha intuito Primo Levi, insieme agli ebrei d’Europa la Shoah ha distrutto l’idea di civiltà occidentale: insieme ad essa si è perso il legame causa-effetto alla base della nostra concezione, nostra di noi occidentali, di razionalità e ragione.
Ne “L’asino del Messia” risuona un lessico familiare inequivocabile. C’è la voce dell’Amos Oz di “Una storia d’amore e di tenebre”. C’è la Palestina di Edward Said. C’’è Bauman in carne ed ossa, Primo Levi e Gramsci, c’è persino il Cantagiro degli anni ’70. Più semplicemente (più banalmente verrebbe da dire) c’è l’Europa nell’Israele che Wlodek Goldkorn racconta, il paese che ha avuto la fantasia sfrenata di ricreare la propria lingua scongelandola dopo un’ibernazione durata duemila anni; come se noi in Italia decidessimo che per rifondarci e ritrovarci – e Dio sa quanto ne avremmo bisogno – eleggessimo il latino di Cicerone lingua nazionale. Paradosso nel paradosso, leggendo Oz, leggendo Yehoshua, leggendo Goldkorn comprendi l’inaudito che sarebbe invece facilissimo udire se solo fossimo più saggi e sensati, che non c’è paese più occidentale e più europeo di Israele. Come per magia ritroviamo tutti i limiti e i difetti dell’Europa, la madre-matrigna che con il ferro e col fuoco ha costretto i suoi figli più fedeli a inventarsi una nuova patria. Chi è più europeo degli ebrei d’Europa per cultura, conoscenza delle lingue, aspirazione, legami?
Patria è parola che compare un infinità di volte ne “L’asino del Messia”, segno del sogno e del bisogno dell’autore adolescente e poi giovane uomo. Thomas Mann in esilio orgogliosamente affermava che “ovunque fosse (lui) lì c’era la cultura tedesca”. Il fatto che non abbia mai posseduto pienamente l’inglese – lo racconta in un feroce ritratto una giovanissima Susan Sontag – dà la misura di quanto invece sostiene Goldkron quando afferma di sentirsi a casa in ogni luogo di cui possieda la lingua: la qualità della sua scrittura ne dà piena conferma.
Un’ultima cosa. Citavo la “Legge di Borges” secondo la quale ogni opera (di qualità) muta la lettura di quelle che l’hanno preceduta. Principio solo apparentemente contro intuitivo. Ecco, oggi ho l’impressione che leggere Goldkorn muti la lettura di Primo Levi, dell’ultimo Levi, quello plumbeo dei “I sommersi e i salvati”. (Primo Levi, a lungo considerato un memorialista da catalogare sotto la voce “varia”, è finalmente considerato per quello che è: un classico (uno dei pochissimi) del Novecento italiano ed europeo).
PS
Invece della copertina ho scelto un’immagine dell’autore. Ha il volto rassicurante di chi nonostante le atrocità di cui è stato testimone non ha intenzione di rinunciare alla speranza. Un uomo cha ha il dono di guardare il mondo com’è senza smettere di pensarlo come dovrebbe essere.