Per nostra fortuna e certamente anche sua, Raffaello Cortina non sceglie i titoli della sua casa editrice con gli stessi criteri delle giacche di velluto a coste che indossa, e per entrambi i motivi non passa certamente inosservato. Grazie all’intelligente applicazione della strategia distributiva di scuola feltrinelliana, forte delle sue tre librerie universitarie specializzate e di un catalogo che si arricchisce costantemente di titoli di valore che producono altrettanto valore (nel senso che si vendono: le due cose non sono affatto coincidenti nel mondo della produzione libraria) questo piccolo editore dimostra una volta di più se fosse necessario, che l’editoria di successo è fatta di intuizione, ricerca, giuste conoscenze, saggi consiglieri, rischio e fortuna. Un mix che non ha nulla a che vedere con le così dette “logiche manageriali” dei così detti “manager editoriali”: i libri non sono e non saranno mai né auto né formaggini e come tali non vanno trattati.
L’ultimo, anzi il penultimo, esempio in ordine temporale di intelligenza editoriale di Raffaello Cortina, è il saggio di Frans de Waal (“Il bonobo e l’ateo”) nel quale ho ritrovato la grazia, l’intelligenza, l’umanità e la capacità di scrittura del mai abbastanza compianto Stephen Jay Gould, lo straordinario biologo, zoologo, paleontologo e storico della scienza di cui Feltrinelli e Editori Riuniti hanno fatto a gara nel pubblicato (a prezzi vergognosamente stratosferici) le sue fortunatissime “Riflessioni di storia naturale” nelle quali le sue capacità narrative-divulgative venivano messe al servizio delle sue sbalorditive conoscenze scientifiche. (Non potrò mai dimenticare il saggio in cui crea una correlazione concettuale tra il limite dell’accrescimento delle ossa di dinosauro e la progressiva riduzione del contenuto di cioccolato di una popolare barretta americana; per non parlare delle spiegazioni di statistica usando come riferimento le serie del baseball!).
Ma la grandezza eterna, della nostra breve eternità s’intende, di Gould si misura soprattutto per il coraggio, l’impegno e la quantità spaventosa di risorse che impegnò nelle battaglie civili contro la discriminazione, l’ignoranza creazionista, il razzismo dichiarato che purtroppo allignano nella società americana. Battaglie civili e culturali che l’hanno visto vincitore in scontri che spesso si concludevano nelle aule dei tribunali.
Tornando al libro di Frans de Waal, il sottotitolo “in cerca di umanità fra i primati” sintetizza molto bene il senso del suo lavoro e pagina 75 se ne ha un preciso riferimento: l’albero filogenetico basato sul DNA evidenzia in modo indiscutibile la stretta parentela che corre tra noi e questi primati, a partire da quando le varie specie (decine? centinaia?) di homo erectus e homo habilis si sono distaccate dall’antenato comune che condividiamo con tutti i primati (scimpanzè, bonobo, gorilla, orango). Va subito detto che di umanità, qualsiasi cosa significhi questa oscura parola, tra i bonobi se ne trova certamente di più che in parecchie tribù della nostra così detta “umanità” di sparatori e mozzatori di teste.
L’impressionante somiglianza genetica tra noi e i bonobo (la differenza consiste in pochi punti percentuali) fa nutrire serie dubbi sul diritto che abbiamo (ma abbiamo il diritto?) di tenere in gabbia esseri così evoluti e così capaci di emozioni e di empatia. Con buona pace dell’antropologia di “destra” americana (incredibile, ma sì: il dibattito scientifico negli USA si differenzia anche tra gli evoluzionisti che leggono il darwinismo sempre e necessariamente in termini di “zanne e sangue”, di lotta feroce per la sopravvivenza del migliore in un costante duello tra tycoon alla Borsa Valori di Wall Street, che giunge sino al punto di negare il pur manifesto, innegabile pacifismo dei bonobi, letti quale esempio di orrendi fricchettoni del mondo animale, gay e bisex che non fanno altro che scopare da mane a sera accoppiandosi comunque dovunque e con chiunque).
Nonoste queste furibonde polemiche, l’osservazione scientifica di questa incredibile famiglia di scimmie antropomorfe ha dimostrato che il senso morale, quella cosa che il grande Kant riteneva innata negli umani e di chiara origine divina (“le stelle sopra di me, la legge morale dentro di me”) con il divino abbia poco o nulla a che fare e dipenda invece molto con le logiche che governano il successo evolutivo.
Ecco dunque dipanarsi il dialogo fra lo scienziato non credente (ma non per questo noiosamente impegnato a convincerci delle sue opinioni) e i bonobo osservati e studiati nel corso degli anni in centinaia di esperimenti; esseri socievoli dotati di fortissime capacità sociali, impegnati assiduamente a rispettare (e far rispettare) le gerarchie funzionali nel gruppo attraverso forme di pacificazione sorprendenti che, a partire dagli spulciamenti reciproci, giungono immediatamente a forme varie e serenamente liberali di accoppiamenti di ogni ordine e grado. Il solo vietato è tra padri e figlie, le quali raggiunta l’età fertile vengono cacciate dal gruppo dalle femmine dominanti; porteranno il loro patrimonio genetico in un altro branco a vantaggio di tutta la specie.
I bonobo hanno “senso morale”? Parrebbe di sì. Non solo chi non rispetta le regole viene allontanato dal gruppo (la più terribile delle punizioni per esseri altamente sociali quali sono) e quindi non si riproduce; ma decine e decine di esperimenti dimostrano l’assoluta e pressocché immediata volontà dei bonobo di prendersi cura dei più piccoli, dei più deboli, dei più vecchi. Aiuto che si manifesta nella divisione del cibo, nell’offrire riparo dalla pioggia, nel porgere il proprio nutrimento al membro anziano incapace di nutrirsi da sè. (Come i cuccioli umani sani perchè non abbiamo ancora fatto in tempo a rovinarli, i bonobo manifestano un innato e irrinunciabile senso della giustizia e dell’equità).
Perchè i bonobo sarebbero “buoni”? Risposta sconvolgente che riguarda anche noi, imbecilli e violenti come siamo, sorta di scimmie degenerate; perchè la bontà, l’altruismo cooperativo, con-vie-ne, è utile a tutti, tutela tutti, anche e soprattutto dal punto di vista della fortuna evoluzionistica. Lo capiremo in tempo? Ne dubito.
Perchè i bonobo sono in grado di essere intelligentemente buoni? Sono “buoni” perchè empatici, poichè il loro cervello è ricco di neuroni specchio (tranquilli: quelli li abbiamo anche noi). Sono i neuroni specchio, come dimostrato da Giacomo Rizzolatti che ci consentono di vivere le emozioni dell’altro come se fossero le nostre; che ci fanno mettere nei panni dell’altro; che ci impediscono di provare piacere nel dare dolore ad un altro essere vivente (cane, gatto, canarino, bergamasco o leccese che sia) che – in ultima istanza – ci rendono umani.
Viene da concludere che, oltre alla nostra scatola cranica dotata di una maggiore quantità di melassa interna, l’unica cosa che ci distingue – pelo ed incredibile prestanza psico-sessuale a parte (beati loro) – è il senso della morte.
L’autore racconta gli ultimi giorni di vita di un bonobo anziano e sofferente che aveva dovuto rinunciare al suo ruolo dominante; della fatica che gli costava ogni movimento, della generosità dei più giovani che si prodigavano nell’aiutarlo. Ma no, nei suoi occhi e nel suo volto scimmiesco, non c’era traccia di consapevolezza e neppure di rammarico. Pare che la cognizione del dolore sia un privilegio umano.