Non so se il merito sia del Corona, ma ho letto più del solito in questi mesi. (Avverto l’implicita pericolosità di questa affermazione; ricorda la battuta di un produttore di Roberto Rossellini: “Bello de casa, mica se po fa ‘naltra guera per farte girà film che te riescono mejo, eh?”).
Sto leggendo con sistematicità i lavori di George Steiner. Il fatto che sia mancato il 3 febbraio alla cospicua età di novantuno anni induce il bibliofilo ad acquistare il più in fretta possibile titoli destinati a finire rapidamente fuori catalogo. Steiner si definiva uno studioso di letterature comparate, amante del “territorio in cui si interfacciano filosofia e poesia”. Io preferisco definirlo storico delle idee, disciplina entrata recentemente nel novero accademico. Il tema di questa madeleine non è tuttavia Steiner, quanto piuttosto la riflessione che la lettura di “I libri che non ho scritto” mi ha stimolato.
Noi possediamo (o crediamo di possedere) un’idea del passato. Ad esempio, riusciamo a pensare con una certa facilità al Risorgimento come all’età omerica. Chiudiamo gli occhi e possiamo immaginare i milanesi abbigliati come il Verdi di Boldini, e le navi degli Achei davanti alla spianata di Troia, e Dante a spasso per le strade di Firenze con l’amico Cavalcanti. Un pensiero che possiamo sviluppare, approfondire e modificare, persino in modo radicale a seconda della natura e della qualità delle informazioni e delle connessioni che nel tempo creiamo tra le informazioni.
Un percorso simile possiamo farlo anche sul futuro. Che possiamo auspicare o temere; ma che è in qualche modo configurabile attraverso l’immaginazione o gli stimoli offerti da chi si occupa di futurologia, disciplina parte integrante delle “scienze anomale” molto apprezzata dai signori Bouvard e Pécuchet. Vivremo tutti sani sino cent’anni. Ci nutriremo d’insetti e bistecche sintetiche. Viaggeremo in tubi idraulici al di sotto degli oceani. Praticheremo forme raffinate di metaerotismo a distanza tra Terra e Marte. Insegneremo ai muti a parlare e ai noiosi a tacere. Eccetera eccetera.
Il difficile (l’impossibile?) è pensare il presente. Comprenderlo. Esserne consapevoli. Individuare con ragionevole certezza le linee di tendenza. Sono buoni tutti a dire a Cesare stai a casa che sono le Idi di Marzo, o raccomandare a Churchill di non fare il pirla a Gallipoli. Per non dire di quanto sia facile immaginare la vita futura in un’altra galassia (quelli della Lucas film lo fanno alla grande da quarant’anni senza troppe menate). Cosa è meglio fare il 4 di maggio, uscire o stare a casa? rischiare il Corona o crepare di fame? riaprire le scuole o solo i parchi? rinchiudere gli anziani o solo i cretini che non rispettano le distanze? copiare la China, la Svezia o l’astuta Nuova Zelanda? (eccetera, eccetera, eccetera)
Del passato si occupano gli storici, il futuro è territorio dei narratori. Il presente è invece dominio dei politici, coloro i quali dovrebbero avere a cuore il destino della polis. Ma si sa, Mozart è morto, Picasso anche, e pure la polis non si sente tanto bene. Ammonisce Baal Shem Tov, maestro chassidico amato da Steiner: “La verità è sempre in esilio”.