Ancora a proposito di comunicazione, il solo baluardo contro l’odio. Le bufale più pericolose, le notizie inesatte se non del tutto false, sono quelle diffuse da giornale (da una fonte) autorevole. Lo spiega un articolo del mai abbastanza elogiato Post.it. La spiegazione è semplice e, una volta tanto, persino intuitiva. Se può essere facile per il lettore avveduto non cadere nella trappola di testate (invento) tipo “Famiglia pagana”, “Donna antiquata” piuttosto che “Il matto quotidiano”, dove già nel titolo si palesa la fakkaggine, più arduo è scoprire la puttanata se a servirvela in tavola è, poniamo, il Frankfurter Allgemeine piuttosto che il New York Times.
Eppure accade più frequentemente di quanto si pensi. Lasciando stare la malafede e le manie da complotto, la ragione va cercata nel taglio dei costi delle redazioni e nella fretta; bisogna produrre di più (più notizie) per più testate, supporti e device con meno risorse. A questa tipologia di motivazioni, tristi ma tutto sommato ragionevoli, se ne aggiunge una seconda, altrettanto triste ma assai meno ragionevole: si chiama ignoranza servita su un piatto di spocchia.
E’ un piatto tradizionale del giornalismo italiano, la cui qualità è sempre stata assai modesta, che sta – lentamente o velocemente giudicate voi – conquistando sempre più le tavole dei (sempre più ridotti) lettori nostrani. E poiché sono di quelli a cui non piace “vincere facile”, eviterò l’uggioso catalogo delle bufale e dei falsi spacciati delle testate specializzate, per citare un esempio da fonte inaspettata. Evento reso ancora più doloroso dal bisogno di informazione indipendente e ben fatta di cui abbiamo, particolarmente in questo momento, estremo bisogno.
L’esempio lo offre Massimo Giannini ritornato a “La Repubblica” dopo l’infausta parentesi di Ballarò. Giannini non ama particolarmente Matteo Renzi, e ciò in un momento in cui antipatizzare l’ex premier è tra gli sport più praticati. Le ragioni sono note e pure umanamente comprensibili: purtroppo i risentimenti professionali non sono disgiungibili da quelli e personali e viceversa; tuttavia un conto sono le antipatie, altro è condividerle e se possibile alimentarle mediante una “narrazione” farlocca sino al ridicolo. Un conto è fare il “cane da guardia” del politico, ruolo nobile del vero giornalismo; altro è perseguire la tua vendetta personale e farlo pure male, come il famoso gatto che tenta di rubare il famoso lardo rimettendoci ahi lui lo zampino. Fuor di metafora, se devi fare il mazzo ad un politico evita di scrivere sciocchezze.
Vengo al fatto. Su “Repubblica” di ieri 19 dicembre in prima pagina (seguito a pagina 29) Giannini scrive: “Renzi farà come De Gaulle, aveva immaginato qualche anima bella. Perso il referendum si ritirerà per qualche anno nella sua Colombey-les-Deux-Èglises, a preparare la dirompente riscossa. Paragone storico azzardato. De Gaulle passò la giovinezza in montagna a combattere i nazisti. Renzi l’ha trascorsa a guardare la “Ruota della fortuna”. Dunque è già tornato. Il suo esilio a Pontassieve è durato un amen. Ma il Renzi che ha parlato all’assemblea del Pd non è il piccolo “caudillo fiorentino”, arrogante e auto-riferito, che talvolta ci è capitato di vedere all’opera in questi due anni di governo”.
Il “piccolo caudillo fiorentino, arrogante e auto-riferito”, dice Giannini: non male quanto a veleno. Odio puro, pare quello sparso ogni giorno da Travaglio. Peccato che il nostro cada nello svarione di attribuire a De Gaulle un’impossibile “giovinezza partigiana”. La giovinezza di De Gaulle trascorse nella prima Guerra Mondiale nel corso della quale fu ferito due volte; durante l’occupazione nazista non avrebbe mai potuto trascorre la “giovinezza in montagna” perché 1) aveva già 50 anni e 2) si trovava a Londra, capo e rappresentante del Governo francese in esilio
Evitare di scrivere cazzate sull’ex-più autorevole quotidiano italiano sarebbe stato facile: bastava fare un giro su Wikipedia. O, meglio, aver trascorso qualche ora sui libri di storia.
L’antipatia – l’anticamera dell’odio – è attualmente il sentimento che circola con maggior vigore nelle case degli italiani insufflato quotidianamente da mestatori di professione. Quando ne sono preda coloro i quali dovrebbero statutariamente “informare e commentare”, il guaio è davvero grosso. Il compito della comunicazione è sostanzialmente questo: informare, documentare; consentire la riflessione in grado di distinguere i fatti dai fattoidi, la competenza dalla cialtroneria, il sapere dall’ignoranza. Il populismo, malattia senile dell’Occidente, si combatte così.