Ehi tu, sei una star o un problem children? E, ammesso e non concesso, crescendo il “bambino problematico” si trasformerà in una stella luminosa (alta quota di mercato / alti margini di profitto) o diverrà un cagnaccio dal quale liberarsi?
Sono questi i dilemmi che il pianificatore digitale affronta quotidianamente quando deve decidere su quale tavolo puntare le proprie fiches. Sono passati molti anni da quando il Boston Consulting Group pubblicò la matrice che lo rese famoso, ma i problemi pare siano sempre gli stessi, tra i quali il classico come capire dove (quando, quanto e come) investire il proprio gruzzolo pubblicitario.
Mi sono spesso chiesto in questi ultimi anni, in buona compagnia tra l’altro, se la new economy contenesse elementi bufalici (leggi: puttanate) in virtù della sua giovane età, oppure a causa di inevitabili tare legate alla “stupidità” strutturale del capitale nel lungo periodo (cfr. in merito T. Piketty). In ogni caso è certo che di puttanate ce ne siano e tante.
Gli ultimi (non ultimissimi) dati Audiweb di agosto riguardanti la total audience non sembrano lasciare adito a dubbi: prendendo in esame i dati riguardanti le prime 10 testate d’informazione online, emerge come nella grande maggioranza dei casi le pagine viste da mobile, che sono poi quelle che generano la maggioranza dei ricavi pubblicitari, siano la metà di quelle visitate da postazione fissa (cioè da PC). Peccato che la fruzione del web da mobile sia in crescita e quella da Pc no. Un (altro) bel guaio per gli editori. Un (altro) bel problema per gli strateghi digitali.
Diciamo subito che è anche un problema di metrica: misurare le “pagine viste” sul web per poi pagarle comincia ad essere ritenuto una fesseria. “Pagina visitata”, il parametro più utilizzato per quotare uno spazio pubblicitario, non è più un criterio amato dai pianificatori e dagli editori, finalmente. Il perchè è semplice come l’acqua calda: non terrebbe conto della qualità.
E qui torniamo al bambino problematico che BCG chiama “Question mark” forse per non incorrere nelle ire dei pediatri. Cos’è la qualità, come si misura? Se la “pagine viste” sono armai considerate cadaveri ambulanti come i condannati a morte nelle carceri statunitensi, come diavolo posso regolarmi?
Uno dei guru (chiedo scusa per l’orrendo e abusato neologismo ma mi si è rotto un tasto del Mac e faccio del mio meglio) Sam Slaughter sostiene che “correre dietro alle pagine viste è un atteggiamento quasi universale nel mondo dei media digitali, e porta ad una esperienza utente quasi universalmente schifosa. Solo perché qualcuno ha visto un annuncio non vuol dire che gli è piaciuto, e sicuramente non significa che gli sia piaciuto il brand che ha pagato per questo“.
Pare che nei paesi digitalmente più avanzati (Stati Uniti) i brand più furbi se ne siano accorti. E stiano correndo ai ripari. Come? Spostando i dollari dove abitano contenuti originali e (buona) qualità.
Finalmente, dico io, la menata del banner – la più grande idiozia concettuale mai inventata dopo la chiusura dei vespasiani pubblici – ha i minuti secondi contati (sull’argomento trovate palate di informazioni e stimoli all’indirizzo http://www.datamediahub.it).
Sento già le obiezioni: la gente non legge, la gente non vuole fare fatica, la gente scappa dagli argomenti complessi (“Caspita Ravera, davvero bello! Ma non sarà un po’ troppo difficile? Non puoi riscriverlo più easy?”).
Vero, sacrosanto, come le denunce della Gabanelli. Ma se è facile fare le denuncie, più complicato trovare le soluzioni. Dalle oche spiumate selvaggiamente, alla qualità dei contenuti digitali sino alla stessa democrazia dell’informazione, il passo è molto più breve di quanto non sembri. E la complessità la stessa: se la gente (detta anche gggente) non sa, decide (o non decide) a membro di segugio. Ma informare (decentemente) è più difficile che contare il numero degli angeli che stanno su una capocchia di spillo. Fare qualità (il motore che genera attenzione qualificata) è sempre più difficile, come ben sanno gli editori di ogni ordine e grado.
ll noto trio E.S.E. (Eschilo, Sofocle, Euripide) riempiva i teatri ai suoi tempi, e pure eran storie tragiche. Anche un certo Guglielmo da Stratford-upon-Avon riusciva a tenere desta l’attenzione e soddisfare il botteghino. Per non parlare delle repliche collezionate dai racconti visivi del signor Disney. E oggi i numeri da record di alcune serie televisive.
Il vero problema dunque non sono solo le masse popolari gentificate bensì, come sempre, le élite. Se smettono di esserlo (perchè non sanno assumersi le responsabilità che la leadership comporta) cessano di produrre qualità. Ogni genere di qualità: artistica, sportiva, informativa, politica, di intrattenimento, alimentare, gestionale, progettuale, comportamentale etc. etc.
Senza qualità, la quota standard di gggente cresce e tracima come il Seveso, sicchè le scelte (ogni genere di scelta) diventano a rischio. Gli editori di contenuti sono l’élite con le più grandi responsabilità. Per questo è vitale che sopravvivano e che, anzi, aumentino in modo esponenziale i loro profitti competitivi. Solo editori liberi dall’incubo del fallimento possono investire in qualità. E solo la qualità ci rende diversi dagli altri primati.
PS
A proposito di élite. L’ispirazione può trovare origine dal basso – musiche popolari, racconti tradizionali, fiabe, miti e leggende – ma l’ordinamento e la composizione che trasforma il materiale grezzo in opera avviene sempre in alto ed è frutto del lavoro di gruppi, sotto-gruppi o singoli. Sono le persone la sola vera differenza. E’ un dura legge, ma è così.