“Parole controtempo” è una collana de “Il Mulino”. Del progetto editoriale non c’è traccia sul sito e neppure in esergo ai volumi. Dopo averne letto “Progresso” di Aldo Schiavano, “Limite” di Remo Bodei e, ultimo ma non ultimo; “Capitalismo” di Alberto Mingardi, ho finalmente compreso che l’obiettivo oltremodo ambizioso della collana è andare oltre il cliché.
Con buona pace di Martin Amis e della sua (imperdibile) “La guerra contro i cliché”, dobbiamo ammettere che contrariamente ai bias i cliché esistono in quanto funzionano; ovvero servono sia pure in modo superficiale a descrivere la realtà. (Esempi: al Polo Nord fa freddo; agli africani non servono le creme solari; i cinesi si assomigliano tutti; gli americani sono degli eterni fanciulloni ignorantelli). Ecco, la collana “Parole controtempo” nasce per scardinare il circuito mentale che ci conduce a sbattere contro i cliché senza tuttavia negarne l’evidente fattualità.
Al “Progresso” di Aldo Schiavone avevo dedicato una madeleine. Se non l’avete letta e la cosa vi toglie il sonno, la trovate qui. Poche parole hanno subito la damnatio memoriae che nel corso del Novecento è toccata a questo disgraziato sostantivo. Parola luminosa come il sol dell’avvenir che si leva nell’alba radiosa dell’umanità liberata, parola amatissima per oltre un secolo da utopisti, sognatori, anarchici, socialisti e umanitari d’ogni ordine e specie, ha conosciuto un degrado inarrestabile a partire dai primi decenni del secolo scorso. Insieme a “tecnica”, parlare di progresso (dichiararsi fautori del progresso e convinti che il progresso fosse un processo comunque in atto) era da sfigati come dichiarare di vivere a Cinisello Balsamo o, per un pugliese, di essere nato a Bitonto (due volte tonto?).
Negli anni Settanta gente che si considerava di sinistra e riteneva Heidegger il pensatore più profondissimo del Novecento magari senza averlo neppure letto, avrebbe ammazzato la nonna, la vacca e il vitello pur di non ammettere che la classe operaia tutta, compresi i braccianti del Mezzogiorno, ci credeva eccome all’idea di progresso e queste genti si sarebbero fatte ammazzare (come pure si facevano) pur di mettersi in casa il frigorifero, la lavatrice e pure quel televisore a colori che faceva venire la colite spastica all’ortodossia comunista. Con buona pace delle lucciole, di Pasolini e pure di quell’astutillo di Fulco Pratesi che dichiara di non fare la doccia per risparmiare l’acqua; per tacere delle vaste masse popolari femminili che, come diceva quella sanguinaria dell’Anna Kuliscioff, per millenni erano state il primo e solo “animale addomesticato dall’uomo” nel senso di maschio.
“Capitalismo” di Alberto Mingardi è, se possibile, ancora più conturbante del “Progresso” di Schiavone. Perché dice cose intelligenti e incontrovertibili che solo un imbecille accecato dall’ideologia potrebbe negare. Il consumo di carne e pesce, ad esempio: un tempo disponibile solo alla mensa dei ricchi, esattamente come gli abiti di lana e di cotone e le calzature in cuoio. E i consumi culturali? Chi poteva ascoltare Haydn prima dell’avvento del giradischi, del cd e di Spotify se non la famiglia Esterházy, per la quale il poveretto esercitava in polpe la professione di maestro di cappella?
E tuttavia, perché mai i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri si chiede Mingardi? Cosa significa capitalismo? Chi sono i suoi nemici? Qual è il suo futuro? (“E’ dalla Rivoluzione industriale che aspettiamo la fine del capitalismo, Ma per sostituirlo con cosa?” si chiede l’autore). Sono queste le domande che da Marx e Engels in poi ci poniamo. Domande a cui Mingardi prova a dare risposta facendo un po’ d’ordine e, soprattutto, raccontando un’altra storia. Per quel che mi riguarda una storia stimolante e intelligente. Come ogni storia che pur non negandone l’utilità vada oltre il cliché.
“Parole controtempo” è una collana di saggi al vapore: cottura delicata, lettura goduriosa, digestione assicurata. Anche i saggi di Kundera – lo cito per gratitudine in occasione della sua più che legittima dipartita – lo sono. “Un Occidente prigioniero” in particolare. Ma anche “Un’estate con Montaigne” di Antoine Compagnon lo è, e ci restituisce tutta la fragranza di uno dei campioni mondiali del pensiero. La domanda delle cento ghinee (variante: delle cento pistole) è dunque questa: perché mai Strega, Campiello, Mondello, Viareggio (eccetera eccetera) premiano il genere “romanzo” e mai un lavoro di saggistica? La mia naturale bonomia mi impedisce di scorrere l’elenco delle opere premiate e di chiedermi quante conservino oggi un minimo di leggibilità e interesse. Per nostra fortuna il tempo, almeno per quanto riguarda la letteratura, è galantuomo.