Sorride sornione sulla copertina del “Venerdì di Repubblica” che Marco Cicala, l’autore del pezzo, con serafica perfidia definisce “un filo equino alla Fernandel”. Ma, indiscutibilmente, al pari di Clint Eastwood e Anna Magnani, Camus possiede solo due posture facciali e la seconda è il volto pensoso alla Bogart con sigaretta d’ordinanza.
L’articolo è un gradevole pretesto per parlare della pubblicazione delle 865 (!) lettere d’amore che Maria Casarès e Albert Camus si scambiarono nel corso della loro lunga e travolgente – “come un film da cineteca” precisa l’occhiello – storia d’amore Morti gli amanti e morta pure la moglie dello scrittore, la figlia Catherine ha dato il visto si stampi. Bompiani si è assicurata i diritti e (coraggiosamente) pubblica “Saremo leggeri”, un augurio più che una promessa visto che il volume consta di 1558 pagine che vengon via come si dice nella bassa lodigiana per soli 65 euro. Una mappazza che con buona probabilità interesserà (forse) solo gli storici della letteratura – i gossipari si limitano a guardare le figure – che lo stesso Cicala giudica non sempre e non del tutto leggera come un pavesino.
Il sorriso di Camus come il vento di Montale nel pomario ha rimescolato i ricordi di letture frettolose quanto entusiaste: le scoperte che gli adolescenti affastellano in disordine una sull’altra nell’ansia di colmare il vuoto della loro sacrosanta ignoranza; vuoto che ogni nuovo stimolo invece di colmare spalanca a voragine. Come Coppi e Bartali o, con più leggerezza, come Tom e Jerry, alla mia generazione il nome di Camus evoca immediatamente quello del suo oppositore J.P. Sartre. Il forte legame nato nella militanza antinazista andò in frantumi e si trasformò – come da tradizione nei partiti comunisti – prima in censura e poi in cancellazione politica e morale.
Per Sartre la violenza è funzionale alla conquista del potere; per Camus è ingiustificabile salvo casi estremi dove in gioco è la sopravvivenza. Camus, come il liberale Isaiah Berlin, pensa che le verità assolute sono lontane dall’essere umano; Sarte ritiene che la giustizia perfetta e la libertà totale corrispondano all’ascesa del comunismo: “L’assoluta libertà è il diritto del più forte a comandare” scrive Camus; Sartre sostiene invece che il comunismo avrebbe permesso ad ognuno di vivere senza esigenze materiali e di scegliere la strada migliore per realizzarsi; il comunismo ci avrebbe resi liberi e, grazie a questa intransigente uguaglianza ed anche la giustizia avrebbe trionfato sovrana.
La pubblicazione nel 1951 de “L’uomo in rivolta” è la miccia che fa esplodere la lunga, feroce polemica con Sartre, il dominus culturale della sinistra francese negli anni ’50 e ’60. Mentre Camus ribadisce la sua fiducia nella democrazia e critica le degenerazioni del comunismo, Sartre lo bolla come atteggiamento passivo e borghese. Dopo la rottura con i filosovietici l’isolamento è immediato e totale. La presa di potere esercitata da Sartre nel sistema culturale francese è pervasiva e maligna: Nicola Chiaromonte, uno dei pochi amici rimasti fedeli a Camus, in una lettera accusa Sartre di gangsterismo.
Camus muore in un incidente d’auto nel 1960. Sartre nel suo letto vent’anni dopo, al termine di una lunga esistenza segnata da riconoscimenti, trionfi e allori rifiutati: nel 1945 la Legion d’Onore e la cattedra al Collège de France, nel 1964 addirittura il Premio Nobel poiché, sostiene, solo a posteriori e dopo la morte fosse possibile esprimere un giudizio sul valore di uno scrittore (grande è la tentazione di prenderlo in parola e farsi delle domande); ma conviene lasciare da parte per carità di patria le motivazioni di Alfred Nobel riguardo all’attribuzione del premio: affranto dai sensi di colpa il padre della dinamite ha probabilmente scritto la prima sciocchezza che gli veniva in mente (“a chi, nell’ambito della letteratura, abbia prodotto il lavoro di tendenza idealistica più notevole”); cosa significa tendenza idealistica? e, ammesso e non concesso di averne compreso il significato, come si misura la qualità dell’ideale? Lette oggi paiono parole ottocentesche in libertà di non grande aiuto ai vecchioni di Stoccolma incaricati delle scelte.
Tornando ai due contendenti è pur tuttavia inevitabile chiedersi cosa resta del loro lavoro. Diciamo innanzitutto che è sparito il contesto. Morta l’Urss, svanito il mito di Cuba, svelato il volto dell’Impero di Mao, ultimo amore senile di Sartre, la parola comunismo nel migliore dei casi evoca la tenerezza degli slanci giovanili, in tutti gli altri gli orrori del socialismo reale. Sparito l’engagement, annullata anche fisicamente la generazione degli intellettuali che lo vivevano come un tratto ontologico prim’ancora che un dovere politico, ai maître à penser sopravvissuti – entità più rarefatte dei capelli di un malato di alopecia – si sono sostituiti i leoni da talk-show e gli influencer da tastiera. Abbiamo smesso di consumare giornali (secondo Audipress tra il 2014 e il 2021 si sono persi circa 7,9 milioni di lettori) e anche l’acquisto di libri riguarda la solita fortunata minoranza: 4 italiani su 10 non comprano neppure un libro l’anno. Si leggono i titoli sugli smartphone, nel migliore dei casi le anteprime. E si presume di essere informati. La qualità del “dibattito”, come si diceva allora, è una conseguenza.
Morto e sepolto il confronto/scontro politico sul sol dell’avvenir, che ne è le loro opere, dei saggi filosofici, dei romanzi, del teatro? Parafrasando Roy Batty (“Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi”) nel corso della pandemia abbiamo assistito ad un proliferare di citazioni di “La peste” e pure le cronache di questi giorni raccontano che al Salone del Libro di Torino siano parecchi i giovinetti intrigati da quelle antiche pagine. Viceversa penso che scovare un giovane lettore entusiasta de “La nausea” sartriana sia più difficile che a uscire a cena con l’Araba Fenice. (Domanda delle cento ghinee che giro ai miei quattro sfaccendati lettori: quale dei due autori è in qualche modo inserito nei programmi di lettura delle nostre scuole superiori? Entrambi, nessuno?).
Resta infine il così detto “progetto filosofico”. Che ne è (che ne è stato) del Jean Paul padre-padrone dell’esistenzialismo post-conflitto mondiale? C’è chi legge (chi studia) ancora “L’essere e il nulla”, oppure ha ragione George Steiner che ne certifica la marginalità accumunandolo al rivale Camus? (“Gli scritti filosofici di Sartre sono, nella loro essenza, dei commenti a Essere e tempo. L’intero repertorio di “impegno”, “assunzione” , “libertà di essere”, “autenticità”, inalienabilità della propria morte” in Sartre, in Camus e nei loro innumerevoli epigoni e, da cima a fondo, heideggeriano” ).
Per quanto riguarda il titolo, ho il sospetto che il tempo sia tutto fuorché galantuomo. Ricordo quando nostro padre tentava di rintuzzare i furori giacobini scatenati dalle iniquità degli uomini e della storia; messo alle strette, a corto di argomenti, faceva sua una qual certa fiducia nella provvidenza di dolciastra tradizione manzoniana tentando inutilmente di convincerci che “a gioco lungo”- parole sue – “avrebbero pagato” perché (sic) “si paga sempre”. Sapevamo già allora che nella maggioranza dei casi briganti e dittatori muoiono nel loro letto coi conforti previsti dalla fede. L’unica cosa che continua a pagare con una solvibilità persino maggiore di una banca svizzera è la lettura. Costa fatica e umiliazioni: quante volte non ricordiamo pagine che pure ci avevano emozionato se non addirittura sconvolto? Richiede concentrazione: non si legge in luoghi affollati e rumorosi. Richiede pazienza: sia quando la scrittura è modesta e ci irrita, sia soprattutto se è eccelsa, e ci scatena il demone dell’invidia. Un uomo (nel senso di essere umano) che legge ha buone probabilità di essere un po’ meno carogna. Accontentiamoci.