Il passato che non passa

By on Giu 24, 2015 in Comunicazione, Contemporaneità

In un paese degenerato anche la retorica da arte della persuasione e del contrasto dialettico non può che degenerare in polemica. E la polemica s’incanaglisce con la pratica di spacciare dichiarazioni di parte per buon senso comune condiviso e condivisibile. Una tecnica sperimentata che in un paese senza memoria come il nostro funziona egregiamente.

E’ quanto è accaduto quando il Ministro della Giustizia ha chiesto ad Adriano Sofri di dare il suo contributo – non retribuito e senza costi per l’Amministrazione – sulla riflessione che riguarda lo stato del sistema carcerario italiano. Apriti cielo: la destra più becera (il solito Salvini) ha iniziato a strillare che era come se al comandante della Concordia avessero offerto il Ministero dei Trasporti; il segretario del sindacato della polizia carceraria, immensamente felice di uscire dal triste anonimato in cui giace, ha urlato allo scandalo; persino il direttore della Stampa, un tempo più pacatamente propenso a meditare sulle cose, ha espresso pubblicamente dall’alto della sua posizione mediatica il disagio suo e della famiglia.

Evidentemente il “caso Sofri” non deve chiudersi mai. Il caso di una persona che ha totalmente espiato la pena per la quale era stata giudicata e condannata. Sempre proclamatasi innocente e sempre rifiutandosi di chiedere una grazia che (molto probabilmente) non gli sarebbe stata negata date le condizioni di salute. Un carcerato scomodo, che non fugge all’estero quando poteva, e sempre imbarazzantemente impegnato nella difesa degli altri carcerati piuttosto che di sè.

A questa persona viene chiesto di portare una testimonianza “dal di dentro” sullo stato delle carceri italiane, fonte di persistente vergogna per uno Stato di diritto come si definisce il nostro e motivo di pesanti (e costose) sanzioni economiche da parte dell’Europa. Si sa che il grado di civiltà di un paese si misura anche e soprattutto dalla parità di genere, dal rispetto e libertà delle minoranze (di tutte le minoranze: persino quella del Pd) e dalle condizioni di carcerazione. Dal che se ne assume che è molto meglio delinquere in Norvegia piuttosto che in Pakistan, essere donna a Londra piuttosto che a Ryad, gay a New York piuttosto che a Roma. Il nostro sistema carcerario fa notoriamente schifo. In primo luogo per quei disgraziati (nel senso etimologico del termine: coloro che subiscono una disgrazia) a cui tocca di fare il secondino per campare. Una vita d’inferno in posti d’inferno dove il burn-out è purtroppo frequente.

Chi meglio di un pollo, mucca o porcello potrebbe dare informazioni illuminanti sulla qualità del trasporto animale? (Gli animali non parlano, poveretti. Gli umani se messi in condizione a volte, sì). Analogamente, chi meglio di un carcerato di lungo corso come Sofri poteva dunque dare testimonianza, senso e narrazione sul cosa significhi oggi stare incivilmente in carcere in un paese che si definisce civile?

Questo il contesto dell’ennesimo “caso” Sofri che lui stesso ha chiuso chiamandosi immediatamente fuori; questa la gravità dell’ennesima polemica scatenata da chi – si tratti di rom. emigranti, rifugiati o realtà carceraria – cerca di spacciare la propria istintività reazionaria per “buon senso comune” unanimemente condivisibile.

Un tentativo divenuto metodo. E’ la ricetta semplice e feroce di chi vorrebbe affrontare ogni problema, dal più semplice al più complesso, a colpi di ruspa. E’ lo stile abusato ma pur sempre efficace di chi trucca vecchie follie per felici ovvietà: quelle semplici e immediate che tanto piacciono al pubblico-bambino dei prati lombardi. Se poi irrealizzabili o peggio criminali, pazienza.